Il sociologo Pippo Russo sul caso Ched Evans: «Nel mondo del calcio si tende a giustificare e perdonare lo stupro»

Il libro di Pippo Russo
di Valentina Venturi
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Lunedì 29 Giugno 2020, 09:48
In Italia non ha avuto la stessa risonanza che ebbe in Inghilterra, ma secondo il sociologo Pippo Russo il caso giudiziario di Ched Evans è paradigmatico per un preciso modo di intendere la cultura dello stupro nel panorama calcistico. Evans, un calciatore ex Manchester City, nel 2012 fu condannato per violenza sessuale nei confronti di una donna, per poi venire scagionato nel corso della ripetizione del processo, fortemente invocata da media e tifosi. A testimonianza della vicenda Russo ha scritto il libro “Calcio e cultura dello stupro. Il caso Ched Evans", Meltemi editore. E lo ha diviso in due parti: la prima riporta i fatti in modo analitico e cronologico, la seconda – la più coinvolgente – offre una panoramica delle implicazioni socioculturali del caso, sottolineando la presenza del fenomeno machista e maschilista nel calcio e della rape culture.  
 
Come è nata l’idea del libro?
«Nella doppia veste di sociologo e giornalista d’inchiesta, analizzo sempre i documenti seguendo le vicende del calcio. Così ho scoperto la storia di Evans e nel momento in cui accadeva non mi aveva molto impressionato, visto che in Italia non se ne parlava un granché: pareva fosse un errore giudiziario, di cui il calciatore è stato vittima. Poi però ho scoperto che l’errore giudiziario c’era sicuramente ma non è chiaro da quale parte: per la condanna di Evans o per il modo con cui si è arrivati alla sua successiva dichiarazione di non colpevolezza? Quella di Evans è una storia molto più complessa di quanto si presenti in superficie».
 
Cosa l’ha colpita durante il lavoro di ricerca?
«La banalizzazione di ciò che è stupro. Questo è un caso di stupro non cruento, senza che ciò significhi che sia uno stupro meno grave, ma c’è una tendenza a sminuire, a giustificare o perdonare quando sono in campo soggetti che giudichiamo a partire da una dimensione emotiva. Ciò che non perdoneremmo a un soggetto qualsiasi arriviamo a perdonarlo al soggetto cui siamo legati per appartenenza tifosa. E quello che mi ha sconvolto è stato il modo in cui uno stupro sia diventato oggetto di discussione pubblica e di rivelazioni, effettuate in modo anche violento ed estremamente abusivo, sulla vita della vittima. Penso sia la dimostrazione esemplare di cosa sia una cultura dello stupro».

Si riferisce al victim blaming?
«Esatto, il meccanismo del rovesciamento della responsabilità e dello spostamento dell’asse della ricerca della verità dai fatti alla reputazione, sono elementi tipici di una cultura dello stupro. Il mondo del calcio in questa vicenda ha dimostrato di essere particolarmente permeabile alla cultura dello stupro».

Che cosa intende?
«Esistono numerosi campi della discriminazione di genere: il mondo dello sport e soprattutto nel calcio, che è stato trasformato in una sorta di mondo del divismo, questo tipo di discriminazione è estremamente radicata, presente, sottile e impercepita. Il modo che hanno i calciatori di autopercepirsi nelle relazioni di genere è a mio avviso estremamente diffuso e si tratta di una predisposizione di carattere globale».
 
Si spieghi meglio.
«Oggi il calciatore è uno dei divi della contemporaneità e tende a percepire le proprie relazioni sociali - comprese quelle di genere - come se tutto gli fosse dovuto, con un senso di onnipotenza che sovente ha delle conseguenze devastanti. E nel caso delle relazioni di genere, il fronte è particolarmente delicato».

Il discorso è riferibile anche al calcio femminile?
«Credo che i casi di cultura dello stupro ci siano ovunque, in qualunque disciplina sportiva, sia nel settore maschile che femminile. Non dobbiamo dimenticare che l’abuso sessuale può essere anche abuso omosessuale, non solo eterosessuale: ovunque ci sia una relazione di asimmetria di potere, l’abuso è sempre latente. Il mondo dello sport purtroppo è particolarmente esposto e incline a questo rischio».
 
Come si è arrivati allo status symbol del calciatore?
«Sono diventati i divi della contemporaneità, subendo una trasformazione che li ha portati ad essere equiparabili a quelli che un tempo erano i divi del mondo dello spettacolo come il cinema o le rockstar. Fino a venti anni fa li identificavamo con gli stravaganti, che andavano vestiti in modo bizzarro, avevano amori sopra le righe ed eccessi della responsabilità penale. I calciatori sono diventati i nuovi stravaganti, i nuovi divi, i nuovi trendsetter: coloro che hanno una vita pubblica esorbitante, rispetto alla dimensione agonistica».
 
Da cosa dipende?
«Negli anni i calciatori hanno dovuto sgrezzarsi, oggi sono esposti a un mondo dell’immagine per loro particolarmente sfidante, quindi hanno imparato a gestire la comunicazione e sono più colti di quanto non fossero un quarto di secolo fa. Però è chiaro che ciò che non cambia, rispetto al mutamento culturale, è il fatto che abbiano una socializzazione molto precoce. Il calciatore che diventa professionista, specie se a un certo livello brucia le tappe dal punto di vista biografico prima che professionale ed è oggettivo che ciò ti dia delle vertigini. Il senso di onnipotenza, bruciando le tappe porta a percepire se stessi come soggetti di successo anche nel campo delle relazioni di genere sessuali. Si tratta di una distorsione della realtà, però particolarmente presente e incisiva».
 
La cultura dello stupro può essere eliminata?
«La cura dovrebbe essere l’educazione, ma i primi ad essere educati dovrebbero essere gli istruttori che non preparano i ragazzi solo alla performance, ma anche alla vita. Sensibilizzandoli che se per un momento della partita sono oggettivamente su un palcoscenico, finiti i 90 minuti del calcio o gli 80 nel rubgy o i 40 nel basket, tornato delle persone come tutte le altre e devono avere rispetto degli altri e di se stessi».
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