L'infermiera di 28 anni da un mese nel reparto Covid: «Non ho neanche il tempo di piangere»

L'infermiera di 28 anni da un mese nel reparto Covid: «Non ho neanche il tempo di piangere»
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Giovedì 9 Aprile 2020, 20:51

«È come essere in una grande bolla, dove non esiste il mondo esterno, dove si combatte ogni secondo, dove tutti ci stanno chiedendo tantissimo: dobbiamo stare attenti a non infettarci, attenti a come ci svestiamo, dobbiamo saper gestire un’urgenza dopo l’altra, ma allo stesso tempo dobbiamo trovare il tempo per chiacchierare con i nostri pazienti, dobbiamo ascoltare le loro paure e tranquillizzarli, ci ritroviamo sempre più spesso a gestire crisi d’ansia o attacchi di panico che non fanno altro che peggiorare la loro situazione respiratoria». Un'infermiera di 28 anni che lavora al policlinico di Milano, reparto Covid-19, racconta in una lettera le sue giornate a combattere contro “il mostriciattolo”, come lo chiama una paziente. «Siamo tutti sotto stress. E poi non dimentichiamoci che fuori anche noi abbiamo, o forse dovremmo avere una vita, siamo preoccupati per le nostre famiglie, per i nostri cari, abbiamo tanta paura, paura di ammalarci. E non dimentichiamo che viviamo da soli e io non finirò mai di ringraziare Italianway e il proprietario della casa in cui mi sono trasferita dal 16 marzo per questa preziosa possibilità; sì, quando non siamo a lavoro, siamo a casa da soli, perché siamo considerati “untori” e quindi siamo “un rischio” di contagio».

L'ospitalità. infermiera è tra i cento medici e colleghi impegnati nella lotta al virus che hanno aderito all'iniziativa #StateACasaNostra lanciata lo scorso 17 marzo da Italianway  insieme alle altre cinque grandi aziende italiane dell’extra alberghiero. Chi lavora in ospedale durante questa emergenza viene ospitato gratuitamente nelle case per consentire loro di riposarsi senza mettere a rischio le proprie famiglie. L'iniziativa sarà estesa fino al 30 aprile. 


I pazienti. «Ormai è un mese che lavoro in un reparto Covid. Io invito tutti ad essere prudenti, perché questo virus  non risparmia nessuno. Non ha risparmiato neanche Giada, 55 anni più o meno come mia madre, milanese con tre figli della mia età. Anche Giada, come la maggior parte di questi pazienti, non sa come ha contratto il virus; lo chiama “il mostriciattolo” e all’inizio io non riuscivo nemmeno a capire quello che cercava di dirmi per via della sua voce rauca: faceva tanta fatica perché ha avuto un tubo in gola per ben 20 giorni ed era collegata ad un ventilatore. Da 4 giorni è stata estubata e oggi mi ha chiesto di farle lo shampoo e pettinarle i capelli: ma io non ho tempo. Lei ha gli occhi lucidi mentre me lo chiede e allora capisco che è importante e le prometto che il giorno dopo glielo avrei fatto! Il giorno dopo rinuncio alla mia pausa, perché durante il turno ci alterniamo facendo delle pause di circa 30 minuti: è difficile rimanere per tante ore con tutta quella roba addosso, impieghiamo almeno 15 minuti a mettere tutto e 15 a toglierli, quindi la pausa corrisponde solo a svestirsi, bere, andare in bagno e rientrare. Indossiamo una cuffia per i capelli, una tuta dalla testa ai piedi (con un cappuccio), una mascherina strettissima, ben aderente al viso e una visiera, tutto con sotto la nostra divisa e si suda tantissimo e ogni volta ti sembra di non riuscire a respirare, come se ti mancasse l’aria, ma non puoi far nulla. Quindi fare la pausa anche di soli 5 minuti è davvero vitale per noi, ma quel giorno ho deciso di fare un piccolo sacrificio».

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Lo shampoo. «Ho aiutato Giada a mettersi seduta, perché dopo tanti giorni che è rimasta intubata immobile, ora non riesce a muovere bene gli arti, e quindi non riesce più neanche a mettersi seduta a letto e così inizio a lavarle i capelli. Quando entro nella sua stanza lei mi riconosce subito e ricorda anche il mio nome “ti riconosco anche solo dagli occhi, hai degli occhi bellissimi, come Bamby”, mi dice sempre.  Alla fine mi sono resa conto che il tempo è volato ed io ho altri 5 pazienti da controllare, dovevo uscire, ma Giada mi ha accarezzato la visiera e con le lacrime agli occhi mi ha chiesto di aiutarla a chiamare sua figlia, vuole sapere come sta e vorrebbe anche salutare il suo nipotino. Così prendo il tablet ed il numero della figlia e la chiamiamo. Quella chiamata è stata davvero toccante, Giada con tutta la sua paura, il suo disorientamento e i suoi dubbi è stata la persona più forte in quel momento, ha trasmesso tanta forza alla figlia e a me, le ha detto che sarebbe tornata presto a casa e nonostante lei stesse male continuava a chiederle di parenti e amici. Ed io sono rimasta lì tutto il tempo a tenerle il tablet e a cercare di tradurre le parole di Giada, perché lei non riesce a reggerlo da sola, ed io ho pianto, tanto, senza la possibilità di asciugarmi le lacrime perché non posso toccarmi gli occhi, ed ho solo immaginato cosa potesse significare per una figlia non vedere la mamma che sta male per ben 25 giorni , non sentire la sua voce e fidarsi solo della voce di degli sconosciuti che due volte a settimana ti chiamano e cercano di darti delle notizie più o meno sufficienti. Mentre stavo ancora piangendo, abbiamo dovuto interrompere quella videochiamata perché fuori da quella stanza c’era un’urgenza, un paziente doveva essere intubato ed io dovevo andare; “non ho neanche il tempo di piangere” ho pensato, e così con le lacrime sotto quella visiera che mi offuscavano ancora di più la vista, sono uscita ed ho dovuto dimenticare per quell’attimo Giada, per concentrarmi su Marco, il ragazzo da intubare»

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