Azka, la 19enne morta dopo gli abusi del padre non ha ancora una tomba

Azka, la 19enne morta dopo gli abusi del padre non ha ancora una tomba, nella foto Azka con il padre Muhammad Riaz
di Rosalba Emiliozzi
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Sabato 6 Luglio 2019, 11:07 - Ultimo aggiornamento: 17:51

Azka non ha ancora una tomba. La sua vita si è fermata un anno e mezzo fa, dopo un incidente stradale simulato ed è diventata un caso giudiziario. Un’indagine per abusi sessuali, l’arresto del padre, un processo in corso. Questo ha prodotto la sua morte a 19 anni per percosse e violenze. E il suo corpo? È in chiuso in una cella frigorifera dell’obitorio. Dopo l’autopsia è rimasto lì, quasi dimenticato. La madre lo verrebbe in Pakistan, i fratelli spesso dicono al loro avvocato: «Bisogna dare sepoltura ad Azka». Ma ci vogliono soldi, che la famiglia pakistana non ha.

Morta a 19 anni dopo gli abusi del papà: «Si faceva violentare per proteggere la sorellina»

Anche senza una tomba di Azka, giovane arrivata in Italia nel 2014, resteranno tracce indelebili. È l’ennesima storia di barbarie in ambito familiare dove chi avrebbe dovuto proteggerla l’ha picchiata e sottoposta ad abusi solo perché aveva idee e sogni diversi, voleva vivere il suo tempo, Azka, chattare su Facebook, frequentare ragazzi, vestire e muoversi come gli occidentali. L'aveva scritto nel suo diario segreto, sequestrato nella sua camera. Anche se la sua aspirazione era sposarsi e fare la mamma. E già un po’ lo era: tutti i giorni, lei che era la più grande, per anni ha cucinato per i suoi tre fratelli e rassettato la casa quando il padre era fuori a lavorare.

Una vita all’apparenza schiva, marginale che la notte del 24 febbraio del 2018 ha svelato tutto il suo orrore: il corpo di Azka bastonato e tramortito, buttato al centro della strada e maciullato sotto le ruote della prima auto passata in una notte di forte piaggia. La vicenda giudiziaria si sta discutendo a porte chiuse in Corte D’Assise, a Macerata, dove il procuratore capo Giovanni Giorgio è sceso in campo personalmente per sostenere le accuse di omicidio preterintenzionale, violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia contro l’imputato, il padre di Azka, Muhammad Riaz, muratore pakistano di 45 anni, emigrato in Italia con tutto il suo carico di mancata integrazione che vede come apice la sottomissione estrema delle donne a suon di botte, e l’alternativa, a volte, è una sola, la morte.

Chi non c’è più in questa storia feroce - scritta Montelupone, un hotel dove la famiglia ha alloggiato da terremotata e Recanati - è Azka, violentata «cinque o sei volte al mese» dicono le indagini, costretta ad abortite «tre volte con medicinali fatti arrivati dal Pakistan perché incinta del padre», è scritto nelle carte. E infine uccisa da quel padre che non ha avuto neanche pietà di abbandonare il suo corpo tramortito dalle botte, ma ancora con flebili segni di vita, in mezzo alla strada dove poi è morta, travolta da un’auto di passaggio. A spiegare che «l’auto investitrice non gettò a terra la ragazza, ma, con la ruota destra anteriore, schiacciò il corpo di Azka già sull’asfalto» è stato, la scorsa udienza, l’ex comandante della polizia stradale di Civitanova, Leonardo Bonfitto che ha testimoniato in Corte d’Assise. Bonfitto fu tra i primi a intervenire per i rilievi. In aula sono state proiettate le immagini dell’incidente e dei rilievi autoptici sul corpo della giovane. Guardando le immagini il padre ha pianto, ha riferito il difensore Giorgio Laganà.

La notte del 24 febbraio 2018, quando il corpo senza vita di Azka venne portato in obitorio, era di turno il pm Micaela Piredda che comprese subito: conosceva la storia di Azka, quattro giorni dopo la ragazza appena maggiorenne e i tre fratelli minori dovevano deporre, nella forma irripetibile dell’incidente probatorio, contro il padre. Il padre venne subito arrestato. E l’indagine aprì una voragine: botte anche con una mazza da cricket, maltrattamenti, abusi verso la più grande che più volte ha fatto da scudo per proteggere i fratelli (una ragazza di due anni più giovane e due maschi di 13 e 15 anni). Il padre, molte sere ubriaco, ricattava Azka: «Se mi denunci non mando più i soldi a mamma in Pakistan e non può più venire in Italia», oppure «i carabinieri vi portano via».

L’uomo si è sempre difeso dicendo di non ricordare: «Ero ubriaco». Ricordano i figli, però. E per questo si sono costituiti parte civile al processo, assistiti dal legale Paolo Carnevali, nominato dall’avvocato Francesca Forani, tutore dei minori, in qualità di professionista specializzato nella difesa da crimini violenti su donne e bambini.
«I fratelli ora vivono in località protette, vanno a scuola e stanno cercando di tornare a una vita adatta alla loro età - dice l’avvocato Carnevali - Ma sono stati fermi su un punto, volere difendere la sorella più grande che non c’è più e il suo stile di vita, Azka voleva vivere come noi occidentali e aveva provato a chiedere aiuto alla mamma e ai parenti in Pakistan raccontando le violenze subite dal padre ma tutti le hanno detto di non denunciare e di dimenticare o non l’avevano creduta. Ancora oggi la madre dei ragazzi ha paura del marito che è in carcere, una donna che denuncia il marito in Pakistan subisce gravi conseguenze dalla famiglia». E aggiunge: «Come si possano prevenire fatti così gravi nella società odierna è un tema di forte attualità che ha bisogno di risposte concrete e di risorse in grado di far uscire allo scoperto tutto il “sommerso” che regna per retaggio culturale, sociale e di paura per le vittime. Lo Stato deve dotare le vittime di vere risorse anche economiche per consentire di rifarsi una vita».

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