Era protetto dagli altri, ma non da se stesso. La notte scorsa, intorno alle 4,50, ha deciso di farla finita. Si è annodato al collo una corda fatta di lenzuola e federe e si è appeso alla grata del bagno. Solo dieci minuti prima gli agenti di custodia avevano ispezionato la stanza del reparto protetto, condivisa con altri sei italiani, senza notare niente di sospetto. Poi un detenuto ha trovato la porta del bagno chiusa e ha dato l'allarme. Sono arrivati il medico del carcere e il 118, ma il costruttore era già morto.
Nella cella c'era una lettera, trovata dai compagni. Si tratta di una busta sigillata senza indirizzo che
Ciferri avrebbe scritto prima di togliersi la vita e che forse voleva spedire ai familiari. La busta è stata affidata al magistrato che sul decesso ha aperto un fascicolo e disposto l'autopsia. Ma è rovistando nell'armadietto che è saltato fuori un appunto dove Ciferri avrebbe scritto: «L'ho fatto per difendere gli interessi della famiglia». Frase che apre a uno spazio immenso di angoscia: la sua azienda, ereditata dal padre, che soffre per la crisi, le commesse scarse e mal pagate, i debiti ma anche la famiglia cui provvedere, la moglie e i tre figli, e le continue richieste di denaro dei creditori, specie dei due muratori kosovari che, mariti e padri anche loro, assillavano l'imprenditore.
Nulla nel suo comportamento aveva fatto pensare a un gesto così tragico. Non aveva dato segnali che facessero temere un gesto autolesionistico nei colloqui specifici avuti con gli operatori del carcere di Ascoli Piceno, «per questo era rinchiuso in una cella comune, con altri detenuti, e non era sorvegliato a vista» si apprende dal Provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria delle Marche, che, come da prassi, disporrà un'inchiesta interna.
Il suicidio arriva a cinque settimane esatte dal duplice omicidio di Nexhmedin Mustafa, 38 anni e il cognato Avdyli Valdet, 26, uccisi a revolverate da Ciferri il 15 ottobre scorso nella villetta-ufficio di via Molini Girola a Fermo. I due carpentieri kosovari, che si erano licenziati perché non venivano pagati, reclamavano gli stipendi arretrati. Gli operai vantavano circa 20 mila euro (16 mila comprovati da bicte paga e 4mila in nero) di stipendi non versati, più volte richiesti all'imprenditore, anche con un contenzioso giudiziario, curato dal sindacato Uil e in fase di decreto ingiuntivo. Quei soldi erano necessari per mandare avanti le famiglie: Nexhmedin aveva moglie e quattro figli piccoli, Valdet un figlio e un altro in arrivo.
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