«Io stessa non sono nulla, ora. Tutto ciò che rimane è questa città di parole. Le parole sono le uniche vincitrici». È questo il messaggio che Salman Rushdie affida al suo nuovo romanzo, La città della vittoria, che esce in tutto il mondo martedì 7 febbraio (in Italia per Mondadori). A parlare prima di esalare l'ultimo respiro, alla veneranda età di 247 anni, è la protagonista del libro, Pampa Kampana, che - benedetta da una dea - crea un’intera città nell’India meridionale con la sola forza dell’immaginazione. Non importa quante cose abbiamo fatto nella vita, o quante persone ci abbiano apprezzato. Alla fine, non resta di noi altro che un fiume di parole, a cui decidiamo di dare un certo significato. E solo questa voce, resterà a testimoniare della nostra esistenza. Un vero inno alla libertà di espressione.
Lo scrittore nato a Bombay 75 anni fa, perseguitato dalla fatwa di Khomeini dalla fine degli anni Ottanta - dopo l’uscita de I versetti satanici, giudicato blasfemo dal capo dalla “guida suprema” iraniana - era stato poi accoltellato lo scorso 12 agosto, durante una conferenza a Chautauqua, nello stato di New York. Rushdie è ancora convalescente per le ferite riportate e non parteciperà alla promozione.
«Sono stato fortunato - ha detto in una lunga intervista al New Yorker - il mio principale sentimento è la gratitudine. Sono stato meglio. Ma, considerando quello che è successo, non sono poi così male. Le ferite più gravi sono guarite essenzialmente. Ho sensibilità nel pollice e nell'indice e nella metà inferiore del palmo. Sto facendo molta terapia alla mano e mi dicono che sto andando molto bene». Rushdie ha anche ringraziato i due figli Zafar e Milan, che vivono a Londra e soprattitto la moglie, la romanziera e poetessa Rachel Eliza Griffiths, per essergli stato vicino e per averlo assistito.
Rushdie ammise una volta di avere conosciuto Italo Calvino all’inizio degli anni Ottanta e La città della vittoria ricorda molto - sin dal titolo - uno dei capolavori dello scrittore italiano, Le città invisibili.
Il manoscritto misterioso
Calvino in quel libro aveva riscritto il Milione, e affidato a Marco Polo il compito di raccontare tutte le città straordinarie che aveva visitato. Rushdie inventa, invece, la storia di un manoscritto lasciato dalla poetessa e profetessa cieca Pampa Kampana, e ritrovato quattro secoli e mezzo dopo. Un «capolavoro immortale» chiamato Jayaparajaya, che significa “vittoria” e “sconfitta”.
Book Review: ‘Victory City,’ by Salman Rushdie - The New York Times https://t.co/cPVZRFY3GH
— Salman Rushdie (@SalmanRushdie) February 1, 2023
Come in un poema epico indiano
La città della vittoria è un libro che deve molto anche al realismo magico, a poemi epici come il Ramayana e il Mahabharata e che cattura come un incantesimo. Attraverso le gesta di Pampa Kampana, che sposa il re della sua città germogliata dal nulla assieme ai suoi abitanti, ma si concede anche di poter giacere con l’amante portoghese. Assistiamo ai suoi atti di ribellione, alle sue decisioni che violano le leggi del patriarcato e della morale corrente. La città della vittoria - Vijayanagar o Bisnaga, come viene chiamata - diventa il centro di una grande epopea, diventa teatro di battaglie e di intrighi.
La città della vittoria è già uno dei libri più “anticipati” della storia, almeno nel mondo angloamericano. E tutti i critici, dal New York Times all’Atlantic, si dicono entusiasti. «Una favola sontuosa», scrive il Guardian. Alla fine, «saranno le parole a vincere contro la morte».