La grande epopea del libro italiano in Versilia: I 90 anni del Premio Viareggio raccontati dai giurati

La grande epopea del libro italiano in Versilia: I 90 anni del Premio Viareggio raccontati dai giurati
di Andrea Velardi
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Venerdì 23 Agosto 2019, 21:35
“La luce della Versilia è magnifica, pittorica. C’è un colore unico”. Così si esprimeva il pittore Carlo Carrà, autore di uno dei quadri più misteriosi e straordinari della storia dell’arte, “Il pino e il mare”. E nella Versilia continua ad avere luogo la grande epopea del libro italiano, così strettamente legata al Premio Viareggio di cui ricorrono i 90 anni, ricordati oggi pomeriggio nella tavola rotonda coordinata dalla presidente Simona Costa  e di cui sapremo i vincitori domani 24 agosto durante il galà che si terrà al Principino. “Eravamo sotto un ombrellone, si parlava di libri e così volevamo fare entrare la spiaggia nel fatto letterario, contrastando il premio Bagutta che era diventato un cenacolo. Invece il nostro premio doveva essere en plein air”, racconta in un filmato d’epoca Leonida Rèpaci, pugnace e roccioso inventore del premio.  I primi a essere premiati sono due pittori scrittori, tradizione che ha trovato continuità nel premio del  1981 a Ugo Attardi e poi in alcuni premi per la saggistica dati a “La realtà di Caravaggio” di Maurizio Calvesi e a “Jacomo Tintoretto e i suoi figli” di Melania Mazzucco.
 
Qualcuno ha fatto notare che i premi letterari appartengono più alla cronaca che all’arte. Eppure essi rimangono il modo tangibile con cui la repubblica delle lettere si riappropria di sé e si comunica al grande e variegato universo dei lettori, nel miraggio che sia possibile ancora oggi la pazienza cognitiva della lettura in un’epoca di profonda mutazione antropologica, indicando i libri che meritano di essere frequentati e ricordati; con cui quella comunità esce fuori di sé e al contempo si riafferma al proprio interno creando un canone, categorie di esemplarità e griglie di valori; generando un paradigma attraverso la gara, l’agone, riproposizione degli antichi Certamen, riconoscendo pubblicamente qual è l’opera in cui scrittura e narrazione tendono a quella compiutezza, a quella grandezza, a quella piacevolezza che sono i veri obiettivi che spingono i lettori a leggere e gli scrittori a scrivere, inseguendo un sogno ancora più romantico oggi nell’epoca dell’indifferenza alla lettura,  un’illusione concreta condizionata comunque dalla contingenza dei premi (perfino le Operette Morali di Leopardi ne persero uno nell’Ottocento!),  e dalla necessità del conflitto e del coraggio per creare questo canone perché come diceva Flaiano “se si premiano degli scrittori, bisognerebbe anche picchiarne altri!”.
 
Ma i premi ci ricordano anche  quell’ “idea ferita di letteratura che ci aiuta a tollerare la vita” come ricorda Emma Giammattei nel suo intervento alla tavola rotonda. “I premi fanno parte di una pedagogia totale, di una certa idea di estetica e di critica, sono legati al potere politico e al potere disinteressato della letteratura ed esiste una geografia della cultura e della premiologia in cui Viareggio rientra pienamente”. La lunga tradizione del Premio Viareggio si riverbera tutta in questa riflessione identificandosi con la storia novecentesca del libro del nostro paese, di cui ha valorizzato tutti i grandi scrittori, con una giuria di altissimo livello, a volte capace di scelte più democratiche di quelle di altri premi e di operazioni di risarcimento molto importanti contro l’arroganza di alcuni gruppi troppo egemoni e ideologici: basti l’esempio nel 1962 di Giorgio Bassani , grandissimo autore de “Il giardino dei Finzi Contini” svilito come “scrittore della dolcezza sentimentale” dal verdetto emesso dal gruppo ’63, ma oggi non a caso rivalutato criticamente,  e nel 1964 de “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, autore che ha faticato a imporsi nel panorama letterario italiano.
 
 
L’assessore alla Cultura del comune di Viareggio Sandra Mei espriem grande ansia ed entusiasmo per questi 90 anni: “E’ importante raccontare da dove veniamo, raccontare la grande tradizione del premio”.  E annuncia il video “La parole di Viareggio” sulla storia delle premiazioni confezionato da Rai Teche diretta dalla giurata Maria Pia Ammirati. E così scorrono volti che sono emblemi di biografie degne di essere vissute, camei che riassumono parabole lunghe e profonde tutte dedicate alla comprensione del mondo e alla sua narrazione. Dalle ultime edizioni, a ritroso: Fabio Genovesi, ex aequo con Giuseppe Lupo nel 2018, La sostanza sottile di Franco Cordelli nel 2016,  Antonio Scurati con “Il tempo migliore della nostra vita” nel 2015 che parla di “povertà di destino, indigenza spirituale”. Ecco Eugenio Montale che definisce il Viareggio il premio meno accademico creato in Italia, il più spregiudicato con giurati e premiati dalle tendenze diverse: Gadda,  Comisso, Rea, Anna Banti. Carlo Salinari ricorda che i premi debbono andare a scrittori ancora non conosciuti.

Nel 1951 vince Domenico Rea con “Gesù, fate luce”, nel 1956 Carlo Levi  con “Le parole sono pietre”, si ricorda l’ex aequo per la poesia nel 1957 tra “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e l’opera di Sandro Penna e quello per la narrativa tra Natalia Ginzburg con “Valentino” e Italo Calvino con “Il barone rampante”, quello lo stesso Calvino che nel 1968, dopo essere entrato in lizza rinuncia, per Ti con zero “ritenendo definitivamente conclusa l’epoca premi” per non “avallare istituzioni ormai svuotate di significato”, raccogliendo così la temperie polemica di quell’anno travolgente. E Rèpaci riflette sul vizio da parte di molti scrittori di diventare delle prime donne. La vitalità di Rèpaci fa subito veleggiare il premio creando accanto alla narrativa la sezione della Poesia che fregia tutti i nostri grandi autori di versi. Tra cui spicca Umberto Saba con il suo Canzoniere nel 1946 e  Salvatore Quasimodo nel 1958, l’anno prima in cui vincerà il Nobel. C’è spazio pure per una raccolta inedita di Gramsci con forte polemica perché il regolamento vieta premiazioni postume.
 
 
Durante la tavola rotonda Marino Biondi ricorda come il Viareggio è un premio nato sulla sabbia ma non nel senso di scarso fondamento ed è anche un premio più ricco di storia che di soldi!  Montale non era legatissimo al Viareggio perché la poesia nel premio era presidiata da Ungaretti. Gabriella Sobrino ha ricordato come maturava il giudizio letterario sulle opere da premiare, la giuria si riuniva spesso e la continuità della frequentazione unita alla conflittualità non nevrotica, ma argomentata, era la caratteristica principale. Giacomo De Benedetti era uno dei più raffinati elaboratori di giudizi in tutte le sezioni.  Bondi ricorda poi come Rèpaci fu generoso nell’ offrire al Fellini emarginato dall’intellighenzia di sinistra un premio che lui però rifiutò incomprensibilmente.
 
Adolfo Lippi, giornalista sin dai tempi del Mondo, per 5 anni attendente di Rèpaci ricorda lo scazzottamento con Moravia e Pasolini che volevano premiare Delfini al posto di Piovene. Riecheggia il legame di Rèpaci con la terra di Versilia ribattezzata da D’Annunzio come la nuova Arcadia, la zona anche in cui lo scrittore più antidannunziano che si possa pensare, Luigi Pirandello, scriveva all’hotel Royal i  “Sei personaggi in cerca d’autore” mentre Marta Abba faceva il bagno al lido. Rèpaci emerge come un Tolstoj calabrese crucciato, autore di un romanzo, Storia dei Rupe, non compreso dalla critica, che mette molti accademici in giuria sperando che parlassero del suo libro che merita di essere riscoperto. Tra questi Natalino Sapegno e Francesco Flora, ma il rovello di Rèpaci fu di non essere considerato autore importante della letteratura italiana. Per questo ce l’aveva con Giacomo De Benedetti e con Cesare Garboli, “bischero” dagli elegantissimi abiti di lino che non parlava dei suoi libri, ma che dopo Rèpaci divenne presidente di giuria.
 
Con la sua continuità e tradizione il Premio Viareggio regala a tutti una lezione in questi tempi di indifferenza. Fornisce quello che la presidente Simona Costa ha definito “un orientamento nell’epoca della omologazione e della invasione del marketing nel dominio dei libri e della letteratura”. Perché come ha detto Emma Giammattei alla fine della tavola rotonda sui 90 anni parafrasando Anna Maria Ortese: “La letteratura è memoria della cosa che non ricordiamo e non è un gioco di parole”.
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