"Libia 110 anni dopo", il libro di Andrea Camaiora e Mario Nanni per ricordare (e non sbagliare)

"Libia 110 anni dopo", il libro di Andrea Camaiora e Mario Nanni per ricordare (e non sbagliare)
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Venerdì 11 Marzo 2022, 17:51

La conquista della Tripolitania e della Cirenaica nel 1911, il Trattato di Bengasi del 2008, l’intervento militare internazionale del 2011 e la morte di Gheddafi. Più di un secolo di relazioni, più o meno pericolose, tra Italia e Libia. A 110 anni dal Trattato di Ouchy, con cui l’impero ottomano cedeva all’Italia la nazione africana, esce il libro Libia 110 anni dopo. Appunti per ricordare (e non sbagliare), edito da The Skill Press e scritto da Andrea Camaiora, giornalista nonché Ceo e fondatore del Gruppo The Skill, e Mario Nanni, già capo della redazione politica dell’Agenzia ANSA. Ne parlano i due autori. 

A 11 anni dall’intervento militare internazionale in Libia, 2011, che portò alla fine del regime libico e alla fine anche fisica di Gheddafi, l’Italia ha vinto la guerra?

Mario Nanni: “L’Italia, allora c’era Berlusconi al Governo, fu trascinata quasi per i capelli. È noto che Berlusconi, che vantava rapporti anche personali con il rais libico, era contrario. Ma poi ci fu un’accelerazione: da una parte il presidente francese Sarkozy spingeva per la guerra, per liberarsi – si disse – di un testimone scomodo, e a sua volta convinse il premier britannico Cameron; l’Onu approvò una risoluzione, e alla fine l’Italia dovette acconciarsi ad aderire alla coalizione. Quella guerra ha tolto di mezzo un dittatore, Gheddafi, ma non ha risolto nessuno dei problemi: la Libia è ancora in uno stato di disordine, le migrazioni sono incontrollate. Quella guerra, insomma, all’Italia ha portato più problemi di quanti non ne abbia risolti”.


2. Nei rapporti diplomatici con Gheddafi, figure chiave sono state quelle di Andreotti e Craxi. Quale strategia ha funzionato di più rispetto agli americani e al loro atteggiamento verso il rais libico?


Mario Nanni: “Nei riguardi di Gheddafi, Andreotti e Craxi hanno tenuto una linea sostanzialmente unitaria. Andreotti a ogni incontro con il leader libico si doveva sorbire le richieste di risarcimenti per i danni arrecati dagli italiani in tanti anni di occupazione del Paese. L’allora Ministro degli affari esteri con soave fermezza gli ricordava puntualmente che i libici erano stati già risarciti con gli accordi del 1956, e offriva al massimo un gesto simbolico, come la costruzione di un ospedale.

A sua volta, Craxi salvò una volta Gheddafi avvertendolo dell’imminente bombardamento americano, e così il rais poté rifugiarsi in un bunker. L’ex Segretario del Partito Socialista Italiano in realtà non voleva favorire Gheddafi, ma evitare ripercussioni pericolose per l’Italia. Per questo, sia Craxi sia Andreotti cercarono di frenare l’impazienza americana di bombardare la Libia, cercando di convincere Reagan a dialogare con il rais libico, che il presidente americano considerava un terrorista irrecuperabile”.

3. Con la guerra in Ucraina sono riemerse le foto che testimoniano il rapporto amichevole tra Berlusconi e Putin. Stesse relazioni con il Colonnello libico. Atteggiamenti da biasimare o utili per le relazioni internazionali?

Andrea Camaiora: “Le relazioni internazionali sono da sempre mantenute e intessute secondo logiche che rispettano la realpolitik, un termine non a caso non italiano, ma che nasce nella Germania bismarkiana. Il nostro libro ripercorre alcuni frammenti della storia degli ultimi 110 anni e invita proprio a mettersi alle spalle retoriche buoniste che sono al bando in altre grandi nazioni. È giusto parlare con un capo di governo, per quanto criticabile, finché costui rappresenta il proprio popolo e la propria realtà statuale con la quale l’Italia ha rapporti più o meno stretti e, restando alla sua domanda, il nostro Paese ha rapporti stretti storicamente sia con la Libia sia con la Russia. Inoltre, per quanto vogliamo essere critici, in Italia non abbiamo – come nella socialdemocratica Germania – un ex cancelliere o presidente del Consiglio a libro paga del governo russo da moltissimi anni”.

4. Della storia italiana in Libia ci sono anche alcune ombre, come raccontato dal film anticoloniale “Il leone del deserto”. Cosa non dobbiamo dimenticare?

Andrea Camaiora: “Sicuramente non dobbiamo dimenticare che la nostra guerra di conquista e poi di occupazione è stata portata avanti con violenza, spietata determinazione, incessante determinazione, spezzando vite, distruggendo famiglie, causando orrore, dolore, morti. Ma occorre anche dire che la breve esperienza coloniale nazionale impallidisce, per risultati e spietatezza, di fronte ai più consolidati esperimenti britannici, francesi ma anche belgi”. 

5. Dai film alle canzoni (come “Tripoli bel suol d’amore”) qual è l’influenza culturale che il Paese africano ha lasciato all’Italia?

Mario Nanni: “Si può parlare di “immaginario libico” per gli italiani di una certa età. Ma anche i più giovani avranno sentito parlare dai nonni di questo Paese mediterraneo di fronte all’Italia, che Mussolini chiamò la “quarta sponda” e su cui poeti nazionali hanno speso loro discorsi. Oltre a D’Annunzio, figura di poeta-soldato, che è già più scontata, c’è da ricordare Giovanni Pascoli con il suo discorso del 1912 “La grande proletaria si è mossa”. Poi ci sono film come “Bengasi”, canzoni come “Tripoli bel suol d’amore”, Giarabub. La Libia resta come memoria anche nella toponomastica di tante città italiane e piccoli centri, dove ci sono vie intitolate alle principali città libiche”.

6. Cosa rimane dell’Italia in Libia?

Andrea Camaiora: “Nonostante decenni e gli ultimi anni di guerra, resta buona parte delle nostre opera infrastrutturali e urbane, restano le tracce del sacrificio dei nostro coloni, cacciati in modo ingiusto da Gheddafi, restano gli investimenti realizzati nel tempo e ancora portati avanti, con enormi sacrifici, da soggetti di primo piano dell’economia nazionale come Eni. Nonostante la guerra resistono a Tripoli la parte storica e centrale della città, quella che dalla medina e dall’attuale Piazza dei Martiri (l’ex Piazza Verde) si sviluppa intorno alle vecchie arterie stradali italiane: corso Vittorio Emanuele III, corso Sicilia, via Lazio, via Lombardia e via Piemonte.

Gli edifici italiani, a distanza di molti decenni, continuano dunque a caratterizzare il volto del centro della capitale. Le principali iniziative del governo italiano in campo architettonico si sono avute principalmente sotto i governatori Giuseppe Volpi di Misurata (1921-1925) e Italo Balbo (1934-1940). Degli anni di Volpi rimangono in piedi il palazzo del governatore che doveva simboleggiare la grandezza degli italiani (e che fu in un secondo momento dimora di Re Idris e della famiglia reale e successivamente destinato da Gheddafi a ospitare il Museo nazionale libico) e l’edificio della Cassa di risparmio della Tripolitania, costruito a fianco dei bastioni del Castello, che ha mantenuto la sua destinazione originaria divenendo la sede della Banca centrale libica. I Lungomare (fra cui si ricordano i vecchi Lungomare Volpi, Belvedere, dei Bastioni e della Vittoria) sono ancora visibili. Tuttavia, a seguito di un deprecabile quanto massiccio intervento urbanistico, non si affacciano più sul mare; dopo le balaustre in pietra è stata costruita una grossa arteria urbana a scorrimento veloce. Al fine di proteggere gli edifici italiani, l’Istituto italiano di cultura di Tripoli, l’Unesco e l’ordine degli architetti libico avevano promosso nel gennaio del 2014 un convegno dal titolo ‘Gestire e conservare le città storiche in Libia’. Bisognerebbe aver cura della nostra memoria, del nostro lascito e proteggere il portato storico e artistico italiano contemporaneo. Invece prevalgono debolezza e disinteresse: basta vedere cosa è stato consentito a Tirana con il teatro nazionale dell’Opera, un monumento di straordinario pregio che è stato stravolto nel nome di una speculazione edilizia e di una corsa verso il nuovo che priva sia gli antichi colonizzatori che gli antichi colonizzati, di un prezioso frammento di memoria. E ricordare aiuta a non ripetere gli errori del passato. A ciò dovrebbe servire questo libro”.

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