“L’anno che a Roma fu due volte Natale” il nuovo romanzo di Roberto Venturini

L anno che a Roma fu due volte Natale il libro di Roberto Venturini
di Renato Minore
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Lunedì 22 Febbraio 2021, 14:53 - Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 08:51

Può capitare di finire “inghiottito dal mare come nelle tragedie raccontate dalle atroci canzoni romane”. E può capitare che, mentre si osserva “lo zucchero che si scioglie dentro la  tazzina di caffè”, il nevischio inizi a cadere sulla sabbia marina, evento davvero inconsueto.  Nei luoghi che delimitano l’universo narrativo e gli spazi privilegiati dove si muovono i protagonisti e le comparse de “L’anno che a Roma fu due volte Natale” può davvero capitare tutto ciò di cui è capace la scrittura fantasiosa di Roberto Venturini, con le sue rasoiate surreali ed oniriche e le diffuse peregrinazioni di verità e cronaca nera, incastonate tra periferie e spiagge romane.

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Capita così che ci sia una donna fortemente ingabbiata nel suo tugurio fatto di stracci e di ricordi anche dolorosi e che suo figlio (un figlio fortemente edipico nella “gabbia d’amore”) le stia accanto con la sua vita sgangherata di ex bambino/immagine del dado Knorr in anni passati. Capita dalle parti di Torvaianica, sul litorale romano, nei luoghi dove ha preso forma e sostanza quella comunità di divi e celebrità varie raccolta intorno al Villaggio Tognazzi che, attraverso gli anni ,è diventata una sorta di lume tutelare del posto diffondendo la sua piccola leggenda, gli spazi di una mitologia bonaria e avvolgente.

E dal suo immaginario, che può produrre sorprese d’ogni tipo, può generarsi  il progetto un po’ incongruo (ma garantito da una disposizione psichica un po’ visionaria) di ricongiungere i corpi (affiatatissimi in vita ma divisi con la morte) di una celebre coppia, addirittura Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. 

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In “L’anno che a Roma fu due volte Natale”, Roberto Venturini racconta in modo fluido e avvolgente la sua storia alquanto stramba secondo un epos sagacemente sbrindellato dove affiora il ricordo di una mitica maestra romana che arrivava in calesse e “faceva trovare  giacigli in un singolo dell’aula” per far riposare i suoi alunni che avevano pescato tutta la notte”. E la racconta a modo suo, con una ben avviata ricerca linguistica rara negli autori della sua generazione, tutti plot, effetti speciali e spesso sfondi intimistici. Con un piglio ora ironico, ma con punte di ironia grottesca e spesso registrata in chiave anche surreale che ricorda certe pagine malerbiane. E con una certa capacità un po’ pasoliniana di generare le sue figure dentro gli spazi in cui sono serrati e quasi soffocati, come il transessuale “Er donna” in onore del film capolavoro “Amore tossico “del maestro Caligari.    

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