Joshua Cohen: «Internet è una Terra Promessa, ma il libro resisterà sempre»

Joshua Cohen: «Internet è una Terra Promessa, ma il libro resisterà sempre»
di Nicolas Lozito
5 Minuti di Lettura
Lunedì 9 Settembre 2019, 10:59 - Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 18:07

Il suo nuovo Il libro dei numeri è stato definito dalla critica letteraria del New York Times «l'Ulisse dell'era digitale»: 752 pagine, una narrazione non convenzionale, stili che si sovrappongono, neologismi, cambi di formato; proprio come nell'opera-colosso di Joyce. Uscito nel 2015 in America, arriva ora l'edizione italiana, pubblicata da Codice Edizioni e tradotta da Claudia Durastanti (con una copertina azzeccatissima di Davide Bonazzi). L'autore, Joshua Cohen, scrittore newyorkese classe 1980, è in Italia per presentarlo: Bologna, Milano, Mantova.

Il suo volume assomiglia a un fiume in piena, interminabile, che provoca un estenuante piacere per chi arriva al capolinea. Il tema: Internet e l'eredità di quarant'anni di rivoluzioni tecnologiche. Il protagonista del romanzo è Joshua Cohen, uno scrittore sull'orlo del fallimento che viene chiamato da un altro Joshua Cohen - il capo della più grande azienda tecnologica del mondo, la Tetration (una sorta di Google) - per scriverne la biografia. Il Cohen scrittore dovrà seguire il Capo in tutto il mondo, per intervistarlo e scoprire a poco a poco di lui. In mezzo, infinite digressioni e storie parallele. Un libro mondo, o un meta libro, perfetto per l'era dell'iper-testo, come lo sono stati Infinite Jest di David Foster Wallace o Themistery.doc di Matthew McIntosh.

La prima frase del libro è "Se state leggendo questa storia su uno schermo, andate a f.... Parlerò solo se sfogliato come si deve". Perché un lungo libro di carta per raccontare la trasformazione digitale della nostra epoca?
«Ho iniziato a pensarci nel 2006: mi interessava il contrasto tra l'ansia che provavo io all'idea di scrivere libri e la totale mancanza di ansia quando decidiamo di condividere i nostri pensieri online. Mi dicevo: perché mi devo sforzare così tanto per scrivere tutto nel miglior modo possibile, quando su internet è tutto l'opposto? Così ho dovuto affrontare la questione con un libro sull'era della tecnologia digitale».

Quanto tempo ci vuole per scrivere un libro così?
«Io ci ho messo cinque anni, e ho cominciato dopo aver finito Witz. Mi sono reso conto di voler scrivere, a modo mio, un libro sulla fondazione di Internet. Ma il presente continuava a intervenire, così ho inserito anche l'attualità».

Che rapporto c'è tra i tre Joshua Cohen: lei, lo scrittore protagonista del libro e il Capo. Sono complementari?
«Per prima cosa: io sono io e loro sono fittizi. Ma considero tutti i miei personaggi fratelli, tra di loro e con me. I due Joshua condividono stesso nome e stesso anno di nascita: ma uno è uno degli uomini più ricchi e di successo del mondo, e l'altro è uno scrittore invisibile, un ghostwriter. Sono doppioni, ma doppi agli opposti. Un topos classico: il Principe e il povero in versione tecnologica. Il digitale ci obbliga ad avere a che fare con i nostri doppi opposti».

Ci sono stralci di chat, sms, blog, neologismi: a cosa serve una forma così ibrida?
«Il mondo attorno a noi è instabile, in continuo cambiamento. Il virtuale penetra nella nostra realtà continuamente, perché un libro dovrebbe essere diverso?».

Il libro dei numeri è anche il quarto libro del Vecchio Testamento. Lei fa dei parallelismi tra tecnologia e religione: perché?
«L'idea è stata quella di usare il quarto e più strano libro della Bibbia, il Libro dei Numeri, come modello: gli israeliti vagano per il deserto per quarant'anni. Nella mia versione, questi quarant'anni vanno dal 1971, quando è stato inventato il microprocessore, al 2011, l'inizio dell'era dei leak di Assange».

Intende che in questi quarant'anni anche noi abbiamo attraversato un deserto? Dove siamo arrivati?
«In questo tempo, noi, il noi contemporaneo, siamo rinati, siamo cambiati, lasciando indietro la cultura del libro, dell'analogico, e abbiamo desiderato e ottenuto di entrare nella Terra Promessa di Internet».

Internet è davvero la Terra Promessa?
«È una terra promessa ma anche un'ulteriore prova che certe promesse è meglio che rimangano irrealizzate. Il mio libro, esattamente come quello biblico, racconta solo come le persone siano rinate, come la generazione schiava del libro abbia dato vita a una generazione liberata dalle tecnologie digitali, pronta a entrare in una Terra promessa transnazionale e virtuale che porta con sé bene e male».

Da singoli analogici siamo diventati digitali iperconessi? È questa la nostra cultura oggi?
«Internet è diventato il rimpiazzo della nostra cultura, cambiando i nostri precedenti indicatori comuni. L'idea è che ci abbia reso tutti uguali, possiamo avere tutto attraverso la rete. O così sembra. Però abbiamo perso le differenze, l'eccezionalismo, le piccole comunità».

È quello che crede anche il Capo? È per questo che decide di scrivere le sue memorie in un libro vero, con un giornalista della carta stampata?
«Per lui i libri sono qualcosa di sentimentale. Entrambi i miei personaggi capiscono che per esistere devono fare un libro, o almeno comparire in uno».

Quindi il libro, in quanto oggetto culturale, alla fine vince?
«Non è una competizione. Internet ha già vinto. Esattamente come ha vinto la tv. E la radio prima ancora. E il giornalismo ancora prima. Ma va bene così: fintanto che la letteratura perderà, sopravviverà».

In che senso?
«La scrittura non è azione, non vince battaglie. Serve a raccontare segreti, nuovi e veri segreti che non possiamo trovare da nessun'altra parte: è l'unico modo per far sì che ci sia ancora qualcuno disposto a spendere soldi e tempo, giorni, settimane, mesi per leggere. Chi scrive sta chiedendo di annettere parte della propria mente a uno sconosciuto, e facendo così chiedergli che da sconosciuto diventi intimo».

Uno scrittore è una persona che si confessa?
«Dio vuole creare la materia. I maghi o gli alchimisti vogliono cambiare la materia. Gli scienziati vogliono classificare la materia. Lo scrittore deve volere tutte queste cose insieme. Anche se a molti pochi riesce».

Come si sente quando la mettono vicino ai grandi della letteratura ebraico-americana? Sente di fare parte di questa eredità?
«Non ho mai incontrato Bellow o Malamud. Con Ozick ho scambiato delle lettere. Un giorno ho incontrato Roth e dopo la sua morte ho comprato la sua sedia. Ecco l'eredità: una sedia scomoda e sgangherata che ho acquistato all'asta per troppi soldi».

E allora cosa significa scrivere per lei?
«Sette giorni su sette. Tutto il giorno. Bere di notte. Risciacquare, e ripetere. E poi morire».

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