Il Pulitzer William Kennedy: «Quando García Márquez confessò di avere amato un mio libro»

Il Pulitzer William Kennedy: «Quando García Márquez confessò di avere amato un mio libro»
di Gabriele Santoro
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Lunedì 14 Giugno 2021, 16:25

La strada editoriale di William Kennedy, classe 1928, nato ad Albany, capitale dello Stato di New York, fino al Premio Pulitzer, conquistato nel 1984 mettendo alle spalle Cattedrale di Raymond Carver, è stata tortuosa, lunga e appassionata come la sua vita.

Ironweed è stato insignito del prestigioso riconoscimento dopo il rifiuto di dodici casa editrici. L’editore di Viking invece lo pubblicò insieme agli altri due romanzi che costituiscono la trilogia di Albany, sancendo il successo internazionale di un giornalista di rango, divenuto autore, capace di conquistare l’attenzione di Saul Bellow e Gabriel Garcia Márquez. I libri di Kennedy hanno raggiunto trenta paesi.

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Il Premio Nobel colombiano si era appassionato particolarmente a L’ultima scommessa di Billy Phelan, che è parte del ciclo di Albany, appena pubblicato da minimum fax in Italia. Nel noir Kennedy racconta l’America dei margini dal potere periferico a quello centrale con i meccanismi di riproduzione della politica. Il romanzo nasce essenzialmente da due interessi: narrare la storia avventurosa dello zio, un biscazziere, e il fascino del vasto controllo sociale dei democratici di Albany incapaci di perdere un’elezione in cent’anni.

Perché l’incontro con il Premio Nobel Bellow le ha cambiato la vita?

«Lo conobbi nel 1959, quando a Porto Rico dirigevo il giornale San Juan Star. Teneva un corso di scrittura all’Università presso Rio Piedras. Gli mandai sessanta pagine del mio secondo romanzo e lui mi accolse nella sua classe».

Com’è finita?

«Le rilesse, dopo avermele fatte riscrivere, e aggiunse: “Hey, questo è pubblicabile”. Era la prima seria benedizione al mio lavoro. Ho comprato lo champagne e sono tornato a casa per festeggiare con mia moglie. Nel tempo siamo rimasti amici».

La sua trilogia affronta anche la questione dell’identità americana. Qual è il suo senso?

«Non è un concetto univoco, perché si arricchisce di molte tradizioni culturali. Non mi considero un irlandese, ma un americano però quando ho cominciato a scrivere romanzi, mi sono accorto di quanto l’eredità irlandese fosse pervasiva nei miei comportamenti, nel modo di pensare ed è emersa in ogni romanzo. Amo l’essenza irlandese che abbonda nella mia vita».

Billy Phelan parte da un fatto reale: il rapimento del nipote di un capo della macchina politica dei Democratici di Albany da parte di un gangster locale nel 1933. Qual è il potere di “The machine”?

«I democratici hanno preso il potere nel 1921, gestendo ogni cosa dal sistema giudiziario ai locali in cui la polizia controllava che si servisse la birra del capo politico. “The Machine” ha governato ininterrottamente dal 1921 al 1983.

Il sindaco è morto dopo undici mandati consecutivi. Ora il partito ha cambiato alcune forme, è più aperto a livello razziale. È stata eletta per la prima volta una donna e celebrano cent’anni al potere. Non esito a definirla la macchina politica organizzativa più longeva della storia».

Oscurata dall’eccentrica New York, Albany ha dato molto politica statunitense e lei l’ha portata alla ribalta letteraria.

«Dopo il Pulitzer mi hanno riservato l’attenzione dedicata al Papa, quando muore. Quattro dei nostri governatori sono diventati poi Presidente degli Stati Uniti: Van Buren, Cleveland, Teddy e Franklin Roosevelt. È una delle città più politiche d’America. Jefferson, Hamilton e Burr hanno scolpito qui la forma dei nostri partiti».

Che cosa direbbe della sua Albany, a chi, come Faulkner, ha vissuto e vive inconsapevole della sua esistenza?

«La città è databile dal 1609 con il viaggio di Henry Hudson, lungo quello che oggi è definito il fiume Hudson, quando l’area era abitata dai nativi americani. La sua storia risale dunque a molto prima della Rivoluzione Americana. Melville ha vissuto qui come Henry James. Ci ho visto combattere, e vincere in pochi secondi, Mike Tyson. Grace Kelly ci ha trascorso una notte».

Che cosa le ha insegnato la vita notturna di Albany a cui ha attinto per la storia?

«Sono cresciuto in questa città e in alcuni dei suoi saloon ho speso ore di rara educazione direi scolastica. Mio zio era una persona molto nota della vita notturna nel quartiere. Era uno scommettitore, un mazziere, uno spaccone al biliardo. Lo amavo, era il mio parente preferito. Quando ho cominciato a scrivere romanzi, lui aveva già preso la forma di un personaggio di valore. Nel mondo sommerso si legge ciò che poi accade in quello di sopra».

Come ha conosciuto Márquez?

«Ho realizzato la prima intervista biografica di “Gabo” negli Stati Uniti, che viveva parte del suo tempo a L’Avana. Nel 1987 andai a Cuba, in casa sua, e mi fece conoscere anche Fidel Castro. Parlammo di libri, film e del nuovo scotch che aveva lanciato. Amava la scena iniziale in cui Billy Phelan infila a biliardo otto strike consecutivi».

Trova analogie tra la Grande Depressione e la pandemia?

«È il peggior disastro da oltre un secolo, ci sono stati più morti in America della Seconda Guerra Mondiale. La vita è sprofondata per milioni di persone come nella Depressione. Trovo una differenza: la responsabilità della politica. All’esplosione del contagio l’ex presidente Trump ha favorito la diffusione del virus negando la sua forza letale. Negli anni Trenta i leader politici non negarono la crisi, la combatterono fino al suo superamento. Ora siamo nuovamente su quella via».

Che cosa ha imparato del giornalismo?

«Nel vestito migliore non è l’ambizione di un potere piccolo che soggiace ad altri poteri».

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