Giornata Memoria, la psicoanalisi ha mappato i traumi dei sopravvissuti trasmessi ai figli e ai nipoti

Giornata Memoria, la psicoanalisi ha mappato i traumi dei sopravvissuti trasmessi ai figli e ai nipoti
di Franca Giansoldati
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Martedì 25 Gennaio 2022, 18:27

Depressioni, ansie, nevrosi, conflitti, attacchi di panico. La psicoanalisi non ha più alcun dubbio che gli effetti dei traumi più atroci si ereditano a distanza di tempo, come se venissero trasmessi di padre in figlio, fino ad arrivare ai nipoti, passando da una generazione all'altra. Un codice luttuoso permanente capace di snodarsi spietato fino a quando non venga riconosciuto accolto, affrontato e analizzato.

E' successo con i discendenti armeni dei sopravvissuti al genocidio d'inizio secolo, come ha codificato la grande psicoanalista francese Janine Altounian, ed è accaduto successivamente con i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, come ha rilevato, attraverso un lavoro meticoloso in Italia, lo psicoanalista Alberto Sonnino oggi pubblicato da Franco Angeli (Trauma della Shoah, ebraismo e psicoanalisi, 121 pagine, 19 euro).

Sono stati necessari almeno cinquant'anni e il passaggio ad una seconda e poi a una terza generazione perché avesse inizio l'elaborazione del trauma dell'Olocausto. Non è un caso se i superstiti di Auschwitz hanno iniziato a raccontare cosa avevano visto coi loro occhi, cosa avevano vissuto sulla loro pelle solo dopo parecchio tempo. Nel mezzo il silenzio. Nel frattempo però il trauma lo passavano ai familiari come un virus. Era un vissuto talmente abnorme da rendere ardua ogni narrazione al punto da coltivare il sospetto di non venire creduti.

Del resto come si fa a dire di essere stati spettatori di crudeltà inimmaginabili e sistematiche, quotidiane, su bambini, anche neonati recuperando dalla memoria particolari che per la propria salvezza erano stati semi cancellati.

«Si dice che i sopravvissuti, al ritorno dai campi di sterminio, non abbiano avuto, per questo lungo periodo, il coraggio di parlare per la paura di non essere creduti o per il timore di essere giudicati di essersi salvati» scrive Sonnino. Diversi storici sono arrivati a immaginare una specie di cospirazione del silenzio, una sorta di patto tacito, trasversale, indotto, affinché non venisse dato troppo spazio all'abisso più orrendo che aveva travolto l'Europa.

La vita doveva andare avanti a scapito di chi era riuscito a salvarsi. Un sopravvissuto romano Giuseppe Di Porto, morto nel 2017 a 94 anni, ha in seguito ricostruito che ciò che più gli aveva fatto male tornando a casa, era stata l'incredulità che suscitavano i suoi resoconti. Amici e parenti pensavano che fossero esagerazioni, situazioni ingigantite, allucinazioni. Per lui era una specie di violenza di ritorno che produceva altro male e piano piano ha indotto - tanti come lui - a chiudersi in un persistente mutismo. “Era quasi una colpa che noi eravamo sopravvissuti”. Basti pensare che “Se questo è un uomo”, di Primo Levi, fu inizialmente respinto dagli editori perché ritenuto non idoneo per il grande pubblico. Così come i viaggi della memoria ad Auschwitz con i sopravvissuti sono stati avviati solo alla metà degli anni Novanta e non prima. Era come se i tempi non fossero maturi. Per paradosso però il trauma di qualcosa di non elaborato riguarda anche i discendenti dei carnefici.

Sul lettino dello psicanalista non a caso spesso ci finiscono anche tanti figli di ex combattenti fascisti che, durante l'analisi, prendono coscienza di una realtà personale negata o oggetto di conflitto, sospesa tra l'affetto profondo nei confronti del padre o del nonno e il bisogno di giustificarlo. Ogni trauma perché sia superato necessita di un lungo complesso percorso. In pratica la mancanza di un effettivo processo sulle responsabilità storiche oltre a lasciare i carnefici (e la loro discendenza) in preda a una vera e propria colpa persecutoria, induce a pareggiare nell'inconscio un conto difficile da sostenere.

Sonnino ricorda che in Italia non si sono ancora fatti i conti con i firmatari del Manifesto della razza. Su tutti il caso eclatante di Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale della Razza dal 1938 fino al 1943 che ha concluso la sua carriera nel dopoguerra come presidente della Corte Costituzionale fino al 1961. Molti di loro hanno continuato a ricoprire importanti cariche istituzionali e accademiche, senza essere mai stati di messi di fronte alle proprie responsabilità, pur avendo contribuito al disegno di emarginazione, di espulsione e poi, indirettamente, di sterminio. Il disconoscimento della realtà storica impedisce qualunque processo di elaborazione in chi ha subito un trauma, lasciando anche gli stessi carnefici e i loro discendenti vittime delle stesse colpe.

«Dunque la difficoltà di elaborazione per i sopravvissuti non può non avere risentito della mancanza di un mondo circostante disponile ad ascoltare e accogliere, rimanendo sordo al richiamo della giustizia (...). Raramente nella giornata della Memoria si ricordano con precisione il ruolo e la responsabilità di migliaia di italiani che con funzioni diverse ma tutte essenziali al medesimo tragico destino parteciparono al processo di sterminio».

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