“Addio a Kabul”, viaggio nel cuore dell’Afghanistan

“Addio a Kabul”, viaggio nel cuore dell’Afghanistan
di Rossella Fabiani
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Mercoledì 16 Marzo 2022, 12:59

Addio a Kabul” è il secondo libro scritto da Farhad Bitani. Pubblicato per i tipi della Pozza Editore, il libro è un dialogo notturno tra un ex capitano dell’esercito afghano, lo scrittore Farhad e un giornalista occidentale, Domenico Quirico, l’altro autore del volume. Un dialogo che è un viaggio dentro al cuore dell’Afghanistan e una lunga meditazione sulla violenza che ha travolto il Paese e che rischia di condurlo al collasso.

Dal 15 agosto 2021 l’Afghanistan non esiste più.

Ora si chiama Emirato Islamico dell’Afghanistan. Il presidente de facto è il mullah Abdul Ghani Baradar. La nuova offensiva talebana è partita a maggio 2021: in poche settimane le milizie islamiche hanno conquistato le principali città afgane e infine Kabul. E nell’agosto del 2021 l’esercito degli Stati Uniti ha lasciato definitivamente il Paese dopo aver combattuto una lunghissima e sanguinosa guerra. Perché mantenere sotto controllo questa terra è estremamente difficile, quasi impossibile. Incastonato nel cuore dell’Asia, questo sperduto “mucchio” di rocce ha ospitato, nel corso dei secoli, guerriglieri forgiati dalle avversità naturali e insofferenti a ogni dominazione. Alcuni degli eserciti più potenti l’hanno attaccato nei secoli, ma nessuno ha avuto vita facile.

È per questo che il territorio afghano si è guadagnato il soprannome di “tomba degli imperi”. Attraversato dall’imponente catena montuosa dell’Hindu Kush, l’Afghanistan è costellato da cime che superano i 7mila metri, è privo di sbocchi sul mare e il territorio è in buona parte costituito da deserti aridi e rocciosi. Fin dai tempi antichi la popolazione si è concentrata nelle vallate più fertili, dedita all’agricoltura e alla pastorizia. In una estenuante lotta per la sopravvivenza, vista la scarsità di risorse e il clima difficile.

Ma non c’è solo questo. “Ora che la sconfitta è venuta – si legge nel libro – è il momento di ammetterlo: l’America, l’Occidente, sono rimasti vent’anni in Afghanistan, vi hanno condotto una guerra, scelto e gettato via alleati e governanti, distribuito denaro (150 miliardi dollari l'anno) e ucciso migliaia di persone sulla base di un’antropologia immaginaria, tutta agghindata di mediocri astuzie: una favola che dava una forma confortante ai nostri desideri poiché, al di là del folclore e della storia, non ci siamo mai veramente occupati di chi siano gli afghani; non erano infatti i loro guai la ragione per cui eravamo andati in Afghanistan. Oggi, dopo vent’anni di questa fiaba sanguinaria, ancora non sappiamo chi sono davvero i talebani che ci hanno cacciati via, sono rimasti qualcosa di inaccessibile e di oscuro: quali classi sociali rappresentano? Dove reclutano martiri e guerrieri infiniti? Perché, e in che modo, ridotti a turbe di fuggiaschi sconfitti del 2002, sono diventati la bufera che a passi di lupo ha conquistato il Paese”? Da questa domanda è nato il libro.

Ma anche dal desiderio di Farhad Bitani di dedicare la sua vita al dialogo interculturale e alla pace. Figlio di un generale dell’esercito afghano, ha vissuto la guerra prima sotto il regime dei mujaheddin e poi dei talebani. Ha visto l’orrore e conosciuto l’odio. Che per lui bambino era normale. Suo padre lo manda a studiare in Italia, la terra degli infedeli, prima all’Accademia Militare di Modena e successivamente alla Scuola di Applicazione di Torino per continuare la sua stessa carriera. E qualcosa accade.

In Italia una serie di circostanze lo portano a fare ciò che mai si sarebbe aspettato e augurato: andare a casa di un “infedele cristiano”. “Per la prima volta ho condiviso la mia vita con il diverso” - è solito raccontare Farhad nei suoi incontri con il pubblico - “mi avevano sempre insegnato che il diverso è un male. Io non volevo diventare cristiano ma questa famiglia, al contrario delle mie aspettative, rispettava la mia religione: in tavola non c’erano né vino né maiale. Durante la notte, mi sono sentito male, la madre del mio amico mi ha toccato la fronte per misurarmi la temperatura: era lo stesso gesto che faceva mia madre quando ero piccolo.” Ed è proprio con questo piccolo gesto che risveglia in Farhad quel punto bianco insito nel cuore di ogni uomo che suscita nuovamente in lui la necessità di trovare una spiegazione al tanto odio che aveva visto e che fino a poco prima aveva provato inspiegabilmente verso persone che neanche conosceva. Adesso Farhad va in giro per il mondo parlando della sua esperienza e del suo radicale cambiamento con due scopi: far in modo che nessuno cresca come è cresciuto lui e dimostrare che sono i piccoli gesti a cambiare il cuore di un uomo. E’ l’incontro con le persone che porta un reale cambiamento. Quello che è sempre mancato nei venti anni di presenza americana in Afghanistan. Nessuno si è interessato alle persone.

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