Rifiuti, indagine Ecocar partita dalla Dda: volevano arrestarli per mafia

Rifiuti, indagine Ecocar partita dalla Dda: volevano arrestarli per mafia
di Giovanni Del Giaccio
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Sabato 17 Novembre 2018, 08:20 - Ultimo aggiornamento: 15:28
È stata materia della direzione distrettuale antimafia la vicenda Ecocar che nei giorni scorsi ha visto notificare gli avvisi di conclusione indagini a dodici persone. Politici e funzionari accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere o concorso in corruzione e atti contrari ai doveri d'ufficio. Ritenuti capaci di aver messo in piedi «un patto criminale» e «dell'asservimento di amministratori e funzionari degli enti locali ad esercitare i rispettivi poteri e comunque la propria attività in senso favorevole alla Ecocar in cambio di periodiche consegne di denaro e altre utilità».
Quel patto era ipotizzato come mafioso, ma l'accusa è caduta durante il procedimento. Erano state chieste - e non sono state concesse, infatti - misure cautelari con l'aggravante mafiosa. A sostenerlo - nel maggio del 2017 - è stato Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma. Il magistrato lo ha riferito nel corso di un'audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Lo ha fatto rispondendo a una domanda sulle interdittive antimafia - che avevano riguardato la galassia Ecocar - e parlando di «un'indagine che ha cominciato la Dda di Roma, e che ha avuto come esito l'accertamento di reati di pubblica amministrazione e anche di estorsione, per cui noi abbiamo ritenuto sussistente l'aggravante propria dell'articolo 7». Vale a dire del metodo mafioso. «Abbiamo fatto una richiesta di misura cautelare al gip di Roma, il quale invece ha ritenuto che non sussistesse l'aggravante. C'era un collegamento tra questa società oggetto di interdittiva e un soggetto figlio di un condannato per camorra, ma il giudice ha ritenuto che non fosse sussistente l'articolo 7». 
L'ANALISI
Pignatone spiega anche il motivo per il quale, a suo dire, non è stata riconosciuta quella aggravante: «Naturalmente, non siamo in Sicilia, Calabria e Campania, dove si dà per scontato che si viva in mezzo alle associazioni mafiose, quindi la valutazione del giudice in quel caso è stata di non ritenere l'articolo 7, quindi non emettere la misura cautelare che avevamo richiesto. Venendo meno l'articolo 7, viene meno anche la competenza territoriale della Dda di Roma, e quindi del giudice romano, e quindi gli atti sono stati credo già trasmessi alla procura competente procedere per i singoli reati».
Cosa che in questi giorni ha visto una prima conclusione, ora gli indagati hanno 20 giorni di tempo per le loro deduzioni o per farsi interrogare.
All'epoca - giugno 2015 - la Dda acquisì una serie di atti nei Comuni oggi citati nella chiusa inchiesta della Procura di Cassino, quindi anche a Gaeta e Minturno. L'indagine riguarda anche Anzio, Guidonia e Comuni del casertano.

«Racconto la vicenda per descrivere quanto in una regione come il Lazio, da un lato confinante con la Campania e che registra presenze significative, soprattutto calabresi sottolineo che, per fortuna, non siamo in quelle situazioni criminali proprie dalle regioni meridionali sia anche difficile ravvisare quei contatti con la criminalità mafiosa, che ovviamente sono labili, perché rincorrono spesso la parentela, il rapporto di società e così via.  Se li dobbiamo tradurre in un provvedimento giudiziario, poi troviamo un gip con un'opinione che noi non condividiamo, ma che è rispettabile, che dice no, che non c'è l'articolo, non c'è la mafia, e quindi di rimandare gli atti alla procura di...»
Da quell'indagine si è dipanata quella attuale, con la contestazione per alcuni dell'associazione a delinquere, ma senza l'aggravante mafiosa che il giudice delle indagini preliminari ha respinto lo scorso anno.
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