Processo Alba Pontina, l'ex capo della Mobile racconta le indagini

Processo Alba Pontina, l'ex capo della Mobile racconta le indagini
di Elena Ganelli
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Mercoledì 24 Giugno 2020, 06:40 - Ultimo aggiornamento: 07:30
E’ iniziato tutto con un tentativo di suicidio in carcere. Nasce da lì l’inchiesta “Alba Pontina” che il 12 giugno 2018 ha aperto le porte del carcere per la famiglia di Armando Di Silvio e gli altri componenti del clan di Campo Boario chiamati a rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al traffico di droga e alle estorsioni ai danni di commercianti, avvocati e commercialisti. 

A ricostruire la genesi dell’inchiesta della Dda di Roma ieri nel processo a Armando Lallà Di Silvio, Sabina e Francesca De Rosa, Angela Genoveffa e Giulia Di Silvio, Tiziano Cesari e Federico Arcieri, è stato Antonio Galante che ha guidato la Squadra Mobile di Latina da novembre 2015 fino a maggio 2017, periodo durante il quale gli uomini della Questura hanno portato avanti una serrata attività di indagine sfociata negli arresti dell’intero gruppo. Un’udienza nella quale si è anche consumato uno scontro tra il presidente del primo collegio penale Gianluca Soana e l’avvocato Oreste Palmieri che dopo avere contestato la gestione dei testi da parte del Tribunale ha clamorosamente rinunciato al suo mandato di difensore di Armando Di Silvio e di altri imputati costringendo alla sospensione per provvedere alla nomina di un avvocato d’ufficio che ha chiesto i termini a difesa con inevitabile rinvio al 15 luglio prossimo. 

Galante, rispondendo alle domande dei pm Claudio De Lazzaro e Luigia Spinelli, ha raccontato il tentativo di suicidio a via Aspromonte di Roberto Toselli, che in precedenza aveva scelto di collaborare con le forze dell’ordine nell’ambito dell’inchiesta Don’t Touch. Doveva testimoniare in aula contro l’organizzazione guidata da Costantino Cha Cha Di Silvio ma non ha retto. Troppa la paura di ritorsioni. «Era stato avvicinato in carcere e minacciato – ha spiegato l’ex capo della Mobile - così ha cercato di togliersi la vita, salvato grazie all’intervento della polizia penitenziaria». A spiegare agli inquirenti che aveva tentato l’insano gesto perché ormai terrorizzato dai rom era stato proprio lui raccontando di essere stato avvicinato da un altro detenuto, che gli aveva riferito un messaggio, dei fratelli Travali. Così già due anni prima dell’operazione Campo Boario il clan era nel mirino degli investigatori che tenevano sotto costante osservazione via Muzio Scevola e l’abitazione di Armando con controlli con auto e con telecamere ad alta definizione e una cimice ambientale piazzata all’interno di un tombino in rudere di fronte all’ingresso dell’abitazione della famiglia. 

«Lì c’era una vera e propria piazza di spaccio – ha spiegato – dove si trovavano abitualmente anche Pugliese e Riccardo. Ad un certo punto ci siamo accorti che i componenti della famiglia avevano iniziato a girare con auto costose, sottoposte successivamente a sequestro insieme ad alcuni cavalli di loro proprietà». Tale monitoraggio ha consentito di accertare estorsioni e minacce alla segretaria dell’Ordine dei commercialisti, ad avvocati e imprenditori e di scoprire gli altri interessi del clan: in particolare le elezioni del 2016 a Terracina, evento per il quale c’era un forte interesse. Il gruppo voleva infatti gestire in esclusiva la campagna elettorale di Gina Cetrone, ha raccontato Galante, e affermare il predominio sull’attacchinaggio dei manifesti, «operazione nella quale Riccardo ha fatto la parte del leone». E ancora andando indietro l’agguato a Alessandro Zof, un’auto della famiglia Ciarelli sfondata a colpi di mazza durante una lite tra donne delle due famiglie in guerra, i Ciarelli e i Di Silvio. Tutte immagini della gestione criminale del territorio finita con gli arresti. Si torna in aula il 15 luglio. 
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