Alba Pontina, il giudice: «Questa è la storia di Latina negli ultimi 20 anni»

Gli arresti di Alba Pontina
di Marco Cusumano
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Lunedì 4 Novembre 2019, 15:00 - Ultimo aggiornamento: 16:25
«Questa è la storia di Latina degli ultimi venti anni». Il giudice Annalisa Marzano inizia così le 280 pagine di motivazioni della sentenza Alba Pontina, la prima che definisce il clan Di Silvio mafia.
Un'indagine recente ma che affonda le proprie radici «sin dai primi anni 2000», ricostruendo il tessuto criminale della città, la sua evoluzione e la sua crescita. Il lungo excursus tracciato dal giudice porta dritto alla conclusione: «Il clan Di Silvio rappresenta una associazione di stampo mafioso di nuova formazione, territorialmente insediata a Latina, di dimensioni per lo più familiari, la cui forza di intimidazione deriva dalla fama criminale raggiunta dal clan nel sud del Lazio, ancorché si manifesti necessariamente con le tradizionali forme di violenza e minaccia, così assoggettando la popolazione locale alle regole prevaricatrici della cosca». Il giudice paragona il clan alle «organizzazioni mafiose tradizionali»: è dotata di autonoma forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo.

La sentenza assume un valore straordinario perché, per la prima volta, un giudice definisce attendibili del dichiarazioni dei due pentiti eccellenti: Renato Pugliese e Agostino Riccardo. Sono loro, di fatto, a ricostruire in maniera dettagliata e inedita la struttura del clan, i ruoli, gli scontri interni, le alleanze, gli interessi e ogni singola attività del gruppo. Un quadro estremamente dettagliato, verificato pezzo per pezzo dagli investigatori in anni di indagini che hanno portato ad Alba Pontina e prima ancora a Don't Touch.
Il giudice definisce Renato Pugliese «figlio d'arte, perché nato da Costantino Di Silvio, detto Cha-Cha, capo della famiglia sia quale capostipite che nella veste di capo del gruppo criminale; Agostino Riccardo avvezzo al crimine sin dalla giovane età e sempre allineato in dinamiche criminali insidiose, strutturate e solide».

La loro attendibilità viene sottolineata nella sentenza romana che di certo avrà un peso anche sul processo in corso al tribunale di Latina. Qui, tra gli altri, sarà giudicato il capo indiscusso del clan, Armando Di Silvio detto Lallà.
«Io ho fame e mi voglio pià Latina in mano» disse nel 2015 il capoclan Armando ad Agostino Riccardo, oggi collaboratore di giustizia. La dichiarazione risale al periodo successivo all'operazione Don't Touch che portò in carcere molti nomi noti del clan. Armando Di Silvio propose ad Agostino Riccardo di entrare nel clan e lui accettò l'incarico di occuparsi del fruttuoso settore delle estorsioni. Un ruolo di primo piano che oggi rende il pentito ancora più prezioso per scrivere la storia criminale della città.

ECCO PERCHE' IL CLAN E' MAFIOSO
Il giudice Annalisa Marzano analizza gli orientamenti e le interpretazioni in merito alla definizione di metodo mafioso riferito a un'associazione per delinquere. Dopo una specifica analisi delle sentenze degli ultimi anni e dell'evoluzione sociologica del concetto di mafia, indica come discriminante «il nesso causale tra la forza intimidatrice e la condizione di omertà e assoggettamento» nell'ambiente in cui il gruppo criminale domina. Da questo punto di vista il clan Di Silvio è mafia.
Le caratteristiche indicate dal giudice portano a questa conclusione: «sono stati acquisiti numerosi indicatori fattuali quali l'ampiezza e l'indeterminatezza del programma criminale; la varietà e molteplicità dei reati contestati tutti in prevalenza connotati da violenza; la rigorosa organizzazione gerarchica interna e il rispetto riservato al capo del clan; la stabile incidenza egemonica in un determinato ambito geografico e la conflittualità con altri gruppi locali; l'uso e la disponibilità costante di armi (...)». «Tutti questi aspetti - scrive il giudice - se osservati in modo unitario e non parcellizzato, sono espressione di un potere coercitivo e di soggezione dell'associazione consolidatosi nel tempo».
E aggiunge: «Tutte le fasce sociali, indistintamente, erano sottomesse alla forza prevaricatrice e intimidatoria della nota famiglia rom: cittadini comuni, piccoli imprenditori, professionisti (commercialisti e avvocati) financo gli stessi criminali comuni dovevano piegarsi alle regole criminali dettate dai Di Silvio».
 
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