Omicidio Moro, i contrasti nel clan prima del delitto

Omicidio Moro, i contrasti nel clan prima del delitto
di Laura Pesino
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Domenica 11 Luglio 2021, 05:02 - Ultimo aggiornamento: 14:19

«La reazione fu organizzata da Ferdinando Ciarelli detto Macù, che agì d'istinto perché a lui non andava giù che qualcuno avesse sparato a suo padre nel suo territorio. Diceva che dopo 35 anni in cui i Ciarelli avevano dettato legge non era possibile sopportare tale gesto». A parlare con i pubblici ministeri è Andrea Pradissitto, 31 anni, il giovane già arrestato a febbraio per aver partecipato al commando di fuoco che il 25 gennaio 2010 uccise Massimiliano Moro nel suo appartamento in largo Cesti. Sono proprio le sue dichiarazioni, come nuovo collaboratore di giustizia, a dare una svolta alle indagini su quell'esecuzione e a chiudere il quadro dei personaggi che parteciparono all'azione criminale. Grazie alla sua testimonianza vengono infatti arrestati Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Pupetto Di Silvio facendo salire a sei i componenti del gruppo.

Tutto nasce dall'agguato consumato alcune ore prima, intorno alle 7,30 dello stesso 25 gennaio, ai danni di Carmine Ciarelli colpito da alcuni proiettili a pochi passi da casa sua. L'uomo finisce in ospedale ed è proprio qui che si susseguono per tutta la giornata riunioni e incontri del clan per decidere cosa fare e pianificare una reazione di forza. L'uccisione di Massimiliano Moro, considerato dai rom il mandante del tentato omicidio, doveva costituire non solo la risposta del gruppo ma anche un'occasione fondamentale per riaffermare il potere delle famiglie rom rispetto alle organizzazioni antagoniste che volevano rovesciare le dinamiche criminali consolidate in città. Ma non tutti sembrano dello stesso avviso.

Pradissitto riferisce in particolare agli investigatori di due riunioni avvenute proprio nell'ospedale di Latina dove era stato ricoverato Carmine Ciarelli, a cui partecipano anche alcuni esponenti di spicco della famiglia Di Silvio.

Secondo Macù l'attentato al padre proveniva dall'interno e l'arrivo dello stesso Moro in ospedale, evidentemente per allontanare i sospetti su di sé, aveva convinto una parte del clan ad agire subito contro di lui. Ferdinando detto Furt, fratello di Carmine, era invece di opinione diversa. Nutriva sospetti che l'attentato arrivasse dall'esterno, in particolare da una cellula dei casalesi stanziale su Nettuno con cui Furt aveva avuto dissidi per il loro tentativo di espandere interessi e traffici criminali anche a Latina. Moro però viene ucciso da due colpi di arma da fuoco esplosi nel suo appartamento e partiti da una pistola impugnata da Simone Grenga, considerato l'esecutore materiale. E più tardi Ferdinando Furt rimprovera tutti per l'avventatezza di quell'azione di cui, dice, avrebbero pagato tutte le conseguenze non sapendo da chi sarebbe potuta arrivare un'altra reazione a quell'omicidio.

L'esecuzione di Moro, considerato appunto il vertice del gruppo criminale non rom, ha rappresentato dunque nelle dinamiche criminali pontine uno dei tasselli della nuova alleanza dei clan familiari Ciarelli-Di Silvio e il primo di una lunga serie di fatti di sangue che aprì la linea stragista, come l'omicidio di Fabio Buonamano di qualche giorno dopo e il tentato omicidio di Fabrizio Marchetto, avvenuto un mese più tardi e diretto a vendicare l'uccisione di Ferdinando Di Silvio detto il Bello.

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