Il Coronavirus le grotte e i ricordi della guerra

Il Coronavirus le grotte e i ricordi della guerra
di Pier Giacomo Sottoriva
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Martedì 14 Aprile 2020, 10:30 - Ultimo aggiornamento: 10:40
Mi sono chiuso in casa il 5 marzo scorso. Lo ricordo con precisione solo perché il giorno prima è stato il mio compleanno di persona ormai ben dentro quella certa età che di certo non ha nulla. Con oggi sono 36 giorni di prigionia. E non mi ci sto abituando. Noi abbiamo il sole, il mare, il Parco, la collina; ma chi ci ammazza? Ci mettemmo poco a capire che chi ci ammazzava era il Coronavirus. Le cifre spaventano.

In guerra la gravità della situazione era segnalata dal crollo di una vecchia casa di tufi e di tegole, centrata da qualche proiettile vagante nel cielo di Cisterna, O dalla notizia sconvolgente della morte di qualche amico. Solo che durante la disastrosa guerra del 1943-44 (la guerra in casa nostra) non avevano supermercati da assalire per fare incetta di farina, di olio, di burro. La farina è scomparsa. Anche il farinaccio, anche il castagnaccio allora. A Cisterna la fame l'avevamo ogni giorno, ogni ora, ogni momento. A Latina abbiamo affrontato il divieto di uscire di casa e l'invito autarchico Iorestoincasa, trasformato in un ossessivo hashtag, con il volto di un condannato all'ergastolo. Ma le file ai negozi sono diventate la dimostrazione della serietà con cui la situazione è stata presa dalla popolazione. Ricordo invece, ancora bambino, le file che con mia Madre dovevo fare ai forni di Roma, per ritirare i 150 grammi di pane che Benito Mussolini riusciva quasi sempre ad assicurare al suo popolo in guerra. Solo che prima di arrivare al banco del fornaio bisognava aspettare mezze ore intere, per sentirsi dire: Signori, il pane è finito, tornate domani. E mia madre rimetteva nella borsa la tessera annonaria che dava diritto a quei 150 grammi, anche se solo in via del tutto teorica. A volte c'era qualche razzista che guardava me, mia madre e qualche altro nelle nostre stesse condizioni di sfollati ed esclamava in modo che tutti, ma proprio tutti sentissero: Ci mancavano i profughi, a Roma, Ma non potevano restare nelle loro case?. Il problema che ci impediva di stare nelle nostre case era che i tedeschi il 19, 20 e 21 marzo 1944 ci avevano caricato tutti sui loro camion militari e ci avevano scaricato a Narni, a Cesano, alla Breda. Noi eravamo amici di ebrei riparati in qualche convento. Ci avevano lasciato la chiave di casa sulla via Flaminia, allora campagna che iniziava subito dopo piazza del Popolo. Ma finalmente ci eravamo lavati dopo tre mesi di grotte. Sì, perché i Cisternesi vissero per tre mesi nelle grotte di pozzolana scavate sotto i palazzi di Cisterna, la più grande era quella lunga chilometri, sotto Palazzo Caetani. E non si potevano lasciare quei quattro metri quadrati di superficie che eravamo riusciti ad occupare. Per noi era sempre notte. La rompevano i lumi a petrolio. Mia madre ci faceva soffiare il naso e usciva una poltiglia nerofumo. Poi, con pazienza e amore, cercava di liberarci i capelli dei pidocchi che li affollavano. Il mezzo tecnico era lo stesso petrolio, strofinato sulla cute. Uscire non si poteva. Ci pensavano i tedeschi, non i posti di blocco delle nostre buone e pazienti guardie municipali, carabinieri, polizia, guardia di finanza. Quelli tiravano fuori la machine-pistol e minacciavano. C'era poco da discutere. E se non era la Wehrmacht a minacciare, ci pensava Pippo un caccia inglese che volava per far fuoco su qualunque cosa si muovesse sul terreno. Meglio se tedeschi, ma se erano italiani era lo stesso.
Ho una fotografia che mostra sette od otto bambini e bambine sul foro di uscita della grotta Scisciò, dove noi eravamo ricoverati. Non c'era molta igiene, là sotto, in quella promiscuità. Noi eravamo confinanti di una famiglia di zingari. Li chiamavano così. Un giorno mia madre avvertì una orrenda puzza. Con molta pazienza fece confessare a una signora zingara che quell'odore veniva dai loro quattro metri quadrati. Era vero, veniva dalla testa di un cavallo morto per esplosione in strada, che era stata tagliata, avvolta in una coperta e tenuta da almeno quattro giorni per essere mangiata. Orrore. Ma c'era la fame.
Pier Giacomo Sottoriva
Giornalista e scrittore, per decenni collega della redazione del Messaggero
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