Yara Gambirasio, il comandante del Ris: «Quei 25.000 esami di dna per scovare il killer»

La tredicenne uccisa nel 2010. Otto anni dopo la condanna all'ergastolo di Bossetti

Yara Gambirasio, il comandante del Ris: «Quei 25.000 esami di dna per scovare il killer»
di Valentina Errante
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Lunedì 29 Novembre 2021, 07:12 - Ultimo aggiornamento: 30 Novembre, 08:45

Per Giampietro Lago è stata l'indagine della vita. Anche se di casi complessi ne ha seguiti tanti. Perché per il comandante del Ris di Parma, nell'inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio, unica per numeri (25.700 esami del Dna) premiata nella Dna hits of the year dalla Gordon Thomas Honeywell Governmental Affairs 2017, per l'impiego della genetica alle investigazioni, quella storia ha avuto un peso anche emotivo. Ed è partita dal colore degli occhi di Massimo Bossetti, che allora era Ignoto 1 e oggi sconta l'ergastolo. Ora la morte di Yara, tredicenne di Brembate di Sopra, uccisa mentre tornava dalla ginnastica, la racconta una serie tv. «È un film - dice Lago - la complessità di quel lavoro non può emergere».


Come è andata?
«È stato un unicum per le risorse spese, per la concentrazione di enti scientifici che hanno collaborato e perché, prima di sapere chi fosse, in un'informativa, è stato scritto che il killer aveva gli occhi molto chiari».


Partiamo dal Dna.
«È stato l'ostacolo tecnico più difficile da superare.

Gli slip di Yara erano rimasti sul corpo, oramai in decomposizione, per tre mesi. Intrisi di liquidi, oltre a pioggia e neve, avevano subito processi di congelamento e scongelamento. Ogni traccia era dispersa e non riconoscibile. Il caso sarebbe stato chiuso. Arrendersi sarebbe stato normale».

 


E invece?
«L'idea è stata quella di mappare centimetro per centimetro gli slip, sezionati in piccoli quadrati ideali, guardando poi su ciascuno per vedere se ci fosse qualcosa di diverso dal dna di Yara. E in una di queste decine di porzioni insieme è apparsa anche una traccia maschile. Ma era solo un segnale. Allora le piccole porzioni sono state rimpicciolite, per vedere se riuscivamo a ricostruire un Dna completo. Una sorta di zoom genetico. Sapevamo che se non avessimo trovato una traccia lì, il killer non sarebbe mai stato individuato. Poteva essere la figlia di uno di noi. La mia aveva più o meno quell'età. Quando abbiamo trovato un dna maschile definito di un solo soggetto è sembrato un miracolo».


La procura ha molto creduto nel vostro lavoro.
«Tantissimo. Abbiamo rischiato di investire risorse e tempo ma non inseguivamo un fantasma, cercavamo un assassino. A quel punto l'indagine ha acquisito un focus diverso. Ma il test genetico su tutte le persone che stavano intorno a Yara ha dato esito negativo. O ci si fermava o si faceva qualcosa di massivo, ovviamente con risorse ed energie. C'era un alto rischio di fallimento. Ma la tipizzazione del cromosoma Y, frequente tra gli individui che vivono nella zona padana, e il marcatore per il colore degli occhi hanno fornito dati interessanti. Gli occhi chiari, al 94,5 per cento, hanno escluso, per esempio i nordafricani. Su questo aspetto abbiamo lavorato con la George Washington University, era la prima volta a livello mondiale che questo studio veniva applicato a un caso giudiziario. A quel punto sono intervenuti anche la Scientifica, l'Università. È stata l'indagine genetica più grande che sia mai stata fatta. Ognuno seguiva dei filoni: il cantiere vicino al luogo del ritrovamento del corpo, i soggetti che erano passati nell'area, individuati con celle del telefono, i frequentatori delle discoteche».


Poi c'è stata la sorpresa di Guerinoni.
«Quando è stato individuato un dna così simile a quello di Ignoto 1, sembrava fatta. Invece, l'esame ai fratelli di Damiano Guerinoni ha dato esito negativo. Erano solo simili al Dna di Ignoto 1.


L'inchiesta si è complicata.
«Abbiamo ricostruiscono l'albero genealogico genetico di tutta la famiglia fino al 1719, i marcatori hanno trovato una vicinanza fortissima con quelli di Pier Paolo e Diego, figli maschi di Giuseppe Guerinoni, morto nel 99. Il killer era nato da una relazione extraconiugale, bisognava cercare la mamma. La finestra temporale era molto ampia. Abbiamo iniziato a indagare sulla vita di Giuseppe. Nessuno parlava. Era un autista di pullman: abbiamo cercato, nella valle, tutte le donne compatibili con una maternità: 20mila prelievi del Dna.


La mamma di Bossetti si è sottoposta spontaneamente?
«Credo che non immaginasse che il killer fosse suo figlio. Forse neppure che era figlio di Guerinoni».


È stata l'indagine della sua vita?
«Finora sì. Ci ha tolto tanto in serenità, lavoro, ansia. Ho subito pesanti attacchi, ma sono effetti collaterali. Ho vissuto questa indagine come un'enorme tragedia alla quale lo Stato doveva dare una risposta. Volevo dare un nome e un cognome a chi aveva strappato il futuro a questa bambina».

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