Strage bus Avellino, assolto ad di Autostrade Castellucci

Strage bus Avellino, assolto ad di Autostrade Castellucci
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Venerdì 11 Gennaio 2019, 12:15 - Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 01:14

E' la rabbia il commento più netto alla sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Avellino nel processo nei confronti di 15 persone, 12 delle quali dirigenti ed ex dirigenti di Autostrade per l'Italia, accusate di essere responsabili della morte di 40 persone che il 28 luglio del 2013 precipitarono a bordo del bus dal viadotto «Acqualonga» dell'A16 Napoli-Canosa. 

 



«Giudice, esci fuori!» ha gridato un familiare di una delle vittime, dopo che il giudice monocratico, Luigi Buono, aveva dato lettura della sentenza che ha mandato assolti sette degli imputati e tra questi l'ad di Autostrade per l'Italia, Giovanni Castellucci. Il giudice ha accolto la tesi difensiva, affidata all'ex ministro della Giustizia, Paola Severino, secondo la quale «l'Ad di Autostrade non aveva e non doveva avere le competenze per decidere quali barriere eventualmente sostituire, compito che invece rientra, per legge, tra quelli in capo al progettista e ai tecnici». «Hanno assolto il responsabile morale dei 40 morti di Acqualonga e delle 43 vittime del Ponte Morandi di Genova. Castellucci è innocente e gli unici colpevoli siamo noi», ha gridato Giuseppe Bruno, che nell'incidente perse entrambi i genitori e oggi presiede l'associazione che riunisce le famiglie delle vittime. 
 


Il commento di Bruno ha trovato la indiretta condivisione del vice premier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che in diretta Facebook ha commentato la sentenza di Avellino sottolineando a sua volta che «assolve qualcuno che ha la responsabilità dei morti» mentre in un post l'altro vice premier, Luigi Di Maio, scrive che «il grido di dolore delle famiglie delle vittime per l'assoluzione di Castellucci, lo capisco e mi fa incazzare. Non so quanto tempo ci vorrà, ma toglieremo le concessioni ad Autostrade». Espressioni molto forti sono state gridate in aula dopo la lettura della sentenza proprio nei confronti della società Autostrade, «il cui potere ha messo a tacere la verità e la giustizia», dai familiari delle vittime che per due anni e quattro mesi, quanto è durato il processo, hanno presenziato a quasi tutte le udienze. Sette le assoluzioni, otto le condanne.

Tra queste, soltanto quella a 12 anni comminata al proprietario del bus-catorcio, Gennaro Lametta, ha aderito in pieno alla richiesta del Procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo. Le richieste di condanna nei confronti di altri sei imputati di Autostrade per l'Italia sono state quasi dimezzate dalla sentenza con pene che vanno dai 5-6 anni rispetto alla richiesta di 10 anni che il Procuratore Cantelmo aveva chiesto per tutti. Al termine della sua requisitoria, Cantelmo aveva sostenuto che «la strage non ci sarebbe stata se Autostrade avesse provveduto alla manutenzione del viadotto». Tesi contraddetta dalle perizie presentate dai consulenti di Autostrade: «Gli standard di sicurezza delle barriere protettive sul viadotto garantivano una elevata capacità di contenimento, adeguata a quella massima prevista dalla normativa». «La sentenza sconfessa l'ipotesi accusatoria in cui erano indagati tutti i vertici apicali della società, a partire dall'amministratore delegato per cui era stata chiesta, senza alcun fondamento, una pena di dieci anni di reclusione», il commento dell'avvocato Giorgio Perroni, difensore di Autostrade per l'Italia.​

L'incidente. In pochi secondi, poco dopo le otto di sera di una domenica d'estate, si consumò il più grave incidente stradale della storia italiana. Il bus carico di pellegrini tornava a casa da una gita di alcuni giorni a Telese Terme (Benevento) e nei luoghi di Padre Pio, a Pietrelcina. Erano partiti da Pozzuoli (Napoli) con il pullman della stessa agenzia alla quale si erano già rivolti per organizzare spiccioli di vacanza in comune e a buon prezzo, 150 euro a persona tutto compreso, e con la quale avevano già programmato un nuovo viaggio al santuario mariano di Medjugorje.

La sera del 28 luglio del 2013, sulla strada di casa, lungo la discesa dell'A16 Napoli-Canosa, nel territorio di Monteforte Irpino il bus guidato da Ciro Lametta, fratello del proprietario dell'agenzia Mondo Travel che aveva organizzato il viaggio, cominciò a sbandare dopo aver perso sulla carreggiata il giunto cardanico che garantisce il funzionamento dell'impianto frenante. Dopo aver percorso un chilometro senza freni, ondeggiando a destra e sinistra, tamponando le auto, una quindicina, che trovava sul percorso, il bus nel tentativo di frenare la corsa si affiancò alle barriere protettive del viadotto Acqualonga che cedettero facendolo precipitare nel vuoto da un'altezza di 40 metri. Sul colpo morirono 38 persone, l'elenco delle vittime sarebbe salito a 40 con la morte, una settimana dopo nel reparto di rianimazione dell'ospedale Loreto Mare di Napoli di Simona Del Giudice, 16 anni, la più giovane che nell'incidente aveva perso il padre e una sorella, e di Salvatore Di Bonito, 54 anni operaio di Monterusciello, che nell'incidente aveva perso la moglie Anna Mirelli di 48 anni, spentosi il 7 settembre nell'ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli.

I soccorsi furono tempestivi e imponenti. Alla luce delle fotoelettriche, decine di soccorritori, tanti volontari per ore fino all'alba lavorarono fianco a fianco con i Vigili del Fuoco e le forze dell'ordine a farsi largo tra le lamiere contorte alla ricerca di sopravvissuti. Si salvarono soltanto dieci passeggeri. Tra questi tre bambini, sopravvissuti grazie all'abbraccio di nonni e genitori che li strinsero a sé mentre il bus precipitava, che nei successivi cinque anni e mezzo avrebbero dovuto affrontare insieme alla tragedia di famiglie smembrate, il calvario di una lunga riabilitazione negli ospedali di mezza Italia. Dalle loro testimonianze al processo di primo grado il racconto di cosa accadde all'interno dell'autobus prima che precipitasse nel vuoto. Alcuni riuscirono ad avvicinarsi all'autista chiedendogli di aprire le porte per consentire ai passeggeri di provare a mettersi in salvo lanciandosi fuori; altri che pregavano, altri ancora che all'autista chiedevano di fermare la corsa del bus rimasto senza freni contro le auto incolonnate che procedevano a velocità ridotta a causa del restringimento della corsia per lavori in corso.

Ancor prima, a pochi chilometri dal viadotto, in un tratto in salita, proprio Antonio Caiazzo, il marito di Clorinda Iaccarino, che si intendeva di meccanica, aveva chiesto all'autista di fermare l'automezzo, che nel procedere dava segnali poco rassicuranti. Ciro Lametta, che avrebbe poi cercato inutilmente di governare l'autobus, rispose di non preoccuparsi che «nel giro di un'ora, saremo a casa».

 

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