Riace, il sindaco Lucano ha lasciato il paese all'alba: «Non so dove andrò, amici mi aiuteranno»

Caso Riace, rabbia e incertezza per un paese senza sindaco
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Mercoledì 17 Ottobre 2018, 19:26 - Ultimo aggiornamento: 20:00

E' forte il dolore in Mimmo Lucano: «Mi ha rammaricato molto essere stato costretto a lasciare Riace, un paese a cui ho dato l'anima e che ho contribuito a risollevare dallo spopolamento e dall'abbandono ospitando i migranti. Penso che la mia azione sia stata utile, oltre che per Riace, anche per la Calabria, dimostrando a tutti che non è soltanto terra di 'ndrangheta e di fatti negativi. E questo per me è un motivo di orgoglio».

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Le vicissitudini giudiziarie non hanno fatto perdere la grinta e la determinazione a Domenico Lucano, che stamattina presto, in una Riace ancora immersa nel buio, ha lasciato il suo paese. «Non ho ancora deciso - aggiunge il sindaco sospeso di Riace - dove andare. Devo ancora trovare una casa in cui sistemarmi, ma ci sono amici che mi sono vicini in questo momento critico e che mi stanno assistendo. Sto vivendo, comunque, una condizione di precarietà. Ho in macchina un borsone con i miei effetti personali e alcuni libri».
 


Lucano risponde nuovamente al cellulare dopo che per l'intera giornata di ieri, al termine del contatto avuto con i giornalisti a conclusione dell'udienza a Reggio Calabria davanti ai giudici del Tribunale del riesame, aveva interrotto i contatti con l'esterno, godendosi gli ultimi momenti nella sua abitazione di Riace. Ieri sera poi aveva salutato il fratello Giuseppe ed il padre 92enne, che con le lacrime agli occhi lo avevano stretto in un lungo abbraccio. Quindi qualche ora di sonno, agitato e tra mille pensieri, e all'alba l'uomo che ha creato il «modello Riace», rendendo famoso in tutto il mondo il sistema di accoglienza e di integrazione applicato in questo piccolo centro della Locride, é salito sull'auto condotta da un amico per obbedire al divieto di dimora impostogli dai giudici con la decisione depositata ieri sera.

Pur revocando gli arresti domiciliari cui era sottoposto dal 2 ottobre scorso, a Lucano é stata applicata una misura cautelare che, in un certo senso, lo mortifica ancora di più della detenzione, perché lo ha costretto ad allontanarsi dal suo paese e da quella gente che nutre nei suoi confronti una sorta di venerazione. Molti dei circa 130 migranti che vivono ancora a Riace, anche quelli più anziani, lo chiamano affettuosamente «papà Mimmo». E lui, che praticamente li conosce uno per uno, li ricambia con il suo affetto.

Lucano é certamente contrariato per quanto gli é accaduto, ma mantiene la sua lucidità e la sua fiducia nel prossimo e nel futuro. «Sono contento - dice - per il fatto che il mio sia diventato un caso nazionale e che se ne parli ormai dappertutto. Spero che sia utile per il riscatto di Riace. E spero che nel più breve tempo possibile mi venga tolto il divieto di dimora, in modo da consentirmi di tornare a casa. Io rispetto il lavoro di tutti, anche della magistratura, e sono fiducioso nel futuro. Credo anche che la verità, considerata la decisione che é stata presa di revocare il mio arresto, stia emergendo piano piano. Per questo spero che tutto si risolva presto». Lucano ha avuto un breve colloquio con i suoi avvocati, Andrea Daqua ed Antonio Mazzone, nel loro studio di Locri, e si é poi intrattenuto con alcuni giornalisti a Caulonia davanti la casa in cui aveva alloggiato la compagna etiope, Tesfahun Lemlem, prima di trasferirsi a Riace. Dopodiché é andato via, diretto verso una località che non ha voluto rivelare, col suo carico di angosce ma anche con la segreta speranza che la sua vicenda si risolva nel più breve tempo possibile.


LO SCENARIO
Un paese disabitato, sospeso nell'incertezza del futuro dei propri abitanti. All'arrivo a Riace, di prima mattina, è questa la sensazione che si coglie, nel primo giorno senza il «faro» - come lo chiama qualcuno - che ha illuminato gli ultimi 15 anni di vita di questo borgo di sole 500 anime locali e 150 provenienti dai più svariati Paesi del mondo, arroccato sulle pendici a 7 chilometri dal mare Ionio. Domenico Lucano, il sindaco sospeso, oggi non c'è, costretto a vivere altrove dai giudici del Tribunale della libertà di Reggio Calabria.

E la sua è un'assenza che pesa, anche perché dalla durata indefinita. Un'assenza che genera rabbia ed incertezza, non solo nei migranti, ma anche in tanti riacesi che nella politica dell'accoglienza avevano visto un'occasione di riscatto per l'intero paese. Un'occasione per non cedere alla necessità dell'emigrazione. Prospettiva su cui adesso pesa come un macigno la vicenda giudiziaria di «papà Mimmo» - così i migranti chiamano Lucano - e la sua assenza che per molti è destinata a segnare in negativo il futuro dell'esperienza Riace.

Le strade ed i vicoli del paese, vissuti fino a pochi mesi fa da un'umanità multietnica, oggi sono desolatamente vuoti, quasi che i migranti, ma anche molti paesani, si siano messi ai «domiciliari» in attesa di capire gli sviluppi. Su via Roma, nella piazzetta che si affaccia su un parco attrezzato per i bambini e dal quale si gode uno splendido panorama marino, c'è il «Meeting bar», uno dei principali luoghi di ritrovo del paese. Ma oggi ci sono solo giornalisti e pochissimi avventori. Nel pomeriggio la balconata si movimenta appena poco di più con i pensionati che si ritrovano per giocare a carte.

E tra loro anche il padre di Lucano, Roberto, quasi 92enne, insegnante in pensione, che ancora non si capacità dell'allontanamento del figlio. Percorrendo via Roma si arriva nella parte storica del paese, il fiore all'occhiello di Riace, quel «villaggio globale» fortemente voluto da Lucano e diventato famoso nel mondo, dove l'integrazione si tocca con mano. Qui, sui vicoli stretti in pietra, tra case basse bianche e grigie, si affacciano decine di botteghe artigiane condotte, fianco a fianco, da italiani e migranti. Botteghe che però sono chiuse ormai dall'agosto scorso. I fondi da Roma per il progetto Sprar non arrivano da un anno e mezzo. E dopo l'estate gli artigiani sono stati costretti ad appendere i loro attrezzi al chiodo.

E così nel «villaggio globale» adesso restano solo le targhe colorate poste fuori dalle botteghe ad indicare l'origine etnica dei lavoratori e i tanti affreschi che raccontano l'esperienza di accoglienza e integrazione. Col passare delle ore, alcuni degli artigiani riacesi si affacciano nei vicoletti e aprono le loro botteghe, ma solo per fare capire ai giornalisti cosa sia stata l'integrazione da queste parti. Irene lavorava nella vetreria da dieci anni e quando parla delle prospettive non riesce a trattenersi e scoppia in un pianto dirotto. «Il lavoro - dice con gli occhi rossi - era tutta la mia vita. E ora con questa situazione non so cosa potrà succedere».

Accanto a lei Rauda, una giovane somala che da tre anni l'affiancava nell'attività di laboratorio. «Mi piaceva stare qui - dice anche lei con gli occhi gonfi di lacrime - e sono molto triste. A questo punto non so se me ne andrò». Ed è proprio questo che fa paura, anche ai riacesi. Più di uno tra i migranti ed i rifugiati che vivono a Riace hanno manifestato l'intenzione di andarsene. Senza «papà Mimmo», è la loro preoccupazione, per Riace non c'è futuro. «Lo ha detto anche il ministro dell'Interno che l'esperienza Riace è finita», dice Daniel, giovane ghanese.

Una prospettiva che fa paura. «Prima a Riace c'erano turisti, adesso non si vede nessuno; con questa vicenda non sono soltanto i rifugiati ad essere danneggiati, ma anche noi» dice Antonio, che lavorava nel laboratorio di falegnameria insieme ad un ragazzo del Kurdistan.
Adesso i suoi prodotti, come quelli di Irene e Rauda, sono mestamente sistemati sugli scaffali, celati dal buio di negozi chiusi.

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