Poliziotto licenziato perché vestito da donna, il giudice: «Va riscarcito, rimborsare gli arretrati»

Il Tar dà ragione all'agente che nel 2005 girava con abiti femminili: "Ha un disturbo dell'identità di genere". Era stato sospeso e destituito

Poliziotto licenziato perché vestito da donna, il giudice: «Va riscarcito, rimborsare gli arretrati»
di Angela Pederiva
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Martedì 7 Febbraio 2023, 10:41 - Ultimo aggiornamento: 11:07

VENEZIA - La «minigonna color celeste» e gli «orecchini pendenti lunghi fino alle spalle» in Strada Nova, «un paio di sandali» a due passi dal ponte di Rialto, la «maglietta nera corta con l'ombelico visibile» a piazzale Roma. Per quelle tre passeggiate vestito da donna, nell'autunno del 2005, un poliziotto di Venezia era stato dapprima sospeso e quindi destituito, a causa di una condotta ritenuta «riprovevole, che denota mancanza del senso dell'onore e della morale», come annotavano le cronache nel dare conto delle sanzioni e dei ricorsi.

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Poliziotto destituito perché vestito da donna

Una lunga storia umana e giudiziaria, culminata ieri nella sentenza depositata dal Tar del Veneto che ne svela il finale, al netto ovviamente delle possibili impugnazioni in Consiglio di Stato: a distanza di quasi vent'anni, è stato deciso che la persona transgender oggi sessantenne ha il diritto di ricevere gli arretrati non percepiti in conseguenza del procedimento disciplinare.

L'INABILITÀ
Il verdetto del Tribunale amministrativo regionale riassume il travaglio personale e professionale vissuto dall'allora agente della polizia di Stato, che diceva di non essere «gay, né transessuale», ma semplicemente di amare gli abiti femminili al punto da indossarli fuori dall'orario di lavoro, rivendicando così «un modo di sentire estroso, anticonformista, non certo immorale».

Dopo l'istruttoria condotta dalla Questura, nel 2006 erano però scattate la sospensione e la decadenza, successivamente annullate dai giudici. La vicenda era finita nel dimenticatoio pubblico, ma era rimasta una ferita aperta nel vissuto del diretto interessato, dispensato dal servizio per inabilità fisica: «Veniva dichiarato affetto da un disturbo dell'identità di genere che, oltre a chiarire la condotta oggetto di censura, determinava la declaratoria di permanente non idoneità al servizio», ricorda infatti il Tar, accogliendo il ricorso dell'ex agente sul piano del trattamento economico.

GLI EMOLUMENTI
La sentenza svela infatti cos'è successo dopo che il Viminale ha accertato la disforia di genere. Gli uffici hanno reputato l'ex poliziotto idoneo «al servizio nei ruoli civili del Ministero dell'Interno o nelle altre Amministrazioni dello Stato», benché «in mansioni compatibili con la sua ridotta capacità lavorativa e la natura delle infermità sofferte». Ne è stata così disposta la riammissione al lavoro, ma con un temporaneo collocamento in aspettativa speciale, fino alla conclusione della procedura di passaggio nei ruoli del personale civile. La persona ha così chiesto gli emolumenti non percepiti a partire dalla sua destituzione, ma la sua domanda è stata respinta dal dicastero. A quel punto è scattato l'ennesimo ricorso al Tar, sempre con l'assistenza degli avvocati Alfredo Auciello e Giacomo Nordio, i quali hanno sostenuto che al loro cliente dovessero essere corrisposti gli assegni non percepiti, escluse naturalmente le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario. Un'istanza a cui l'Avvocatura dello Stato, a nome del Viminale, ha risposto eccependo la presunta tardività nell'impugnazione dei provvedimenti contestati.

Alla fine il Tribunale amministrativo regionale ha accolto la richiesta di accertamento del diritto alla ricostruzione economica della carriera, come previsto nei casi in cui gli addebiti disciplinari vengono revocati. Per i giudici di Venezia, infatti, «il passaggio nei ruoli civili» non determina «una nuova assunzione», in quanto i suoi effetti sotto i profili dell'inquadramento e della posizione economica decorrono «soltanto a partire dall'accoglimento della domanda di transito». Chiaramente si tratta di un nodo tecnico-giuridico, ma è evidente che la decisione assume una forte connotazione sul piano umano: quei comportamenti apparentemente esibizionistici erano il sintomo di un disturbo che, come tale, non andava punito.

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