Piero Terracina: «Fra i miei otto familiari solo io sono tornato dal lager»

Piero Terracina: «Fra i miei otto familiari solo io sono tornato dal lager»
di Fabio Isman
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Domenica 8 Dicembre 2019, 15:21
(Dal Messaggero del 6 maggio 1997)

 Il film, ormai sta finendo: Oskar Schindler è riuscito perfino a far fare dietro-front a un treno di ebree già arrivato ad Auschwitz («mai saputo una cosa simile, ma giurano che sia vera», spiega chi, in casa sua, ha visto con me la pellicola); Piero Terracina, A-5506 come gli resterà per sempre tatuato sul braccio, per l'ultima volta ricorre al fazzoletto bianco; tira ancora su col naso, e chiarisce: «Dietro ogni ebreo che s'è salvato dai lager c'è uno Schindler; e dietro ogni ebreo italiano deportato, c'è un fascista: come per noi otto».




"Loro otto" li hanno presi a Roma il 7 aprile 1944; anche lo zio, che li aveva raggiunti per il seder di Pesach, la cena pasquale («le tradizioni, capisci?»); mentre li portavano via, in fondo alla scala («non l'ho più rivisto, ma lo riconoscerei sempre»), lui: lo spione che li aveva traditi. «Da Auschwitz, dopo otto mesi, mi sono salvato solo io: non mio nonno, 84 anni; non papà e mamma; non i miei fratelli né mia sorella».

Pesava 38 chili; per tornare, un anno di peripezie («la mia ”tregua” è stata più lunga che quella di Primo Levi»); per 40 anni, non ne ha mai voluto parlare, e con nessuno; «il fischio del treno è stato il mio incubo fino al 1970»; «quando se n'è andato Primo, che ci rappresentava tutti, e a Carpentras hannno profanato il cimitero, ho capito che non potevo più tacere».

Nel film, il primo omicidio a freddo; gratuito ancora più degli altri: «Fino al 17 maggio '44, eravamo a Fossoli. Abbiamo lavorato un solo giorno: per la visita del ministro Buffarini-Guidi. Una volta, un Ss arriva nel campo; e senza motivo, spara in testa a uno, Pacifico Di Castro. Non s'era tolto il cappello, o chissà. Poi, se ne è andato. Il carro funebre è arrivato subito: al funerale, solo il comandante del campo. A 15 anni, non avevo mai visto morire nessuno».

Nel film, il comandante del lager uccide dal suo balcone: «Plausibile; erano proprio così: tutti. Un Ss giovane, bel viso, uno che aveva studiato, sembrava il più umano. Un giorno, quando c'è stata la rivolta nel crematorio e siamo dovuti correre a chiuderci in baracca per l'allarme, lui arriva in bici sul viale tra i due campi. Sul manubrio aveva montato un mitra; e, girando il manubrio, sparava a raffica. Lui, che credevamo il più umano; o forse perfino lo era». Nel film di Spielberg irrompe Auschwitz: la rampa dove arrivano i treni. «Sono entrato da lì anche nel '95: quando ho accettato di tornare, per una testimonianza filmata. Come era? Stesso terrore e stessa disperazione, ma 50 anni dopo».

Piero Terracina è seduto al tavolo da pranzo; spesso la sua mano passa sugli occhi; una lacrima, che forse è preghiera. Con lui, oggi 68 anni, il cugino Marcello, di 74: «Eravamo nascosti; un giorno, arriva una lettera: 20 mila lire domani al Gianicolo, o vi denuncio tutti, un amico. Mamma va da un commissario di Ps, si chiamava Iulia; e lui le dice: "Andrò io all'appuntamento, e gli sparo. Voi non uscite più".

C'era questo cattolico, un affittacamere, che faceva la spesa per noi. Non siamo più usciti. E ci siamo salvati. I documenti? Erano veri, a nome Alessandri: con due testimoni, falsi, siamo andati all'anagrafe; "Veniamo dal Sud, siamo di Bari, abbiamo perso tutto". E ce li hanno rifatti nuovi di zecca».

Schindler inizia a prendere coscienza; Piero: «Stando vicino a quella gente, lui ha capito che erano esseri umani. Io mi ricordo le Ss: dolcissime con i loro cani, uno che amava Bach; ma con noi, tutte terribili. Solo terribili». La prima selezione: «Oh, non erano così accurate. Una ogni 15 giorni. Qualche volta, fuori nudi; altre volte, un Ss passava nelle baracche, prendeva dei numeri dalle braccia, e dopo due ore li portavano via. Poi, gli appelli: ogni sera, in fila per cinque. Tornavamo, e portavamo i corpi dei compagni che non ce l'avevano fatta; li allineavamo in fondo: contavano anche loro».

Il lavoro coatto: «Me lo ricordo ancora più duro. Io, all'inizio, ho fatto parte di due kommando, si chiamavano così: a mano, caricavamo e scaricavamo in un campo carcasse d'aerei abbattuti; e, sempre a mano, scavavamo dei canali contro le alluvioni. La sete era terribile: nella trincea umida che andavamo scavando, infilavamo una canna; perché il fango gocciolasse; sotto, si metteva una tazza: s'aspettava che la melma si depositasse, e si poteva bere». «Sevizie terribili; ma non mi riesce ancora di raccontarle: mi pare che la gente potrebbe non crederci, tanto erano enormi».

E' quello che, a lungo, è successo anche a Primo Levi: non mi crederanno. «Poi, non mi piace raccontare l'orrore; e ce n'è già abbastanza raccontando, del lager, le cose più normali». Normali? Chiamala normalità. Ecco l'interno di una baracca: «Forse, è l'unico momento in cui il film sfiora davvero il lager. Era così. A parte che nel passaggio tra i letti correva la stufa. Ma negli ultimi mesi non funzionava: sulla bocca, dove è umido, la coperta ghiacciava». Nel film, le fosse comuni: «Era il 31 luglio 1944; dovevano arrivare gli ebrei ungheresi: anche dieci convogli al giorno. Mancava lo spazio.

Una parte del campo era per gli zingari: vivevano in gruppi famigliari, era il settore più pieno di suoni, di vita, di movimento. In una notte, tutti ai forni crematori; forse erano ottomila: per far spazio ai nuovi. All'alba, quel settore era deserto».

Un russo libera tutti: «E' stato così anche per noi. Da cinque giorni, non c'era più nessuno, i nazisti se n'erano andati. Una mattina, esco dalla baracca per prendere la neve e poterla bere dopo sciolta. Un russo, divisa tutta bianca, mi punta il mitra. Mi indica di tornare dentro. In baracca, dico che sono arrivati i russi. Nessuno ha avuto la forza di mostrare nemmeno un fiato d'entusiasmo. Il campo era pieno di cadaveri; di noi otto o novemila, la metà è morta nei giorni successivi».

Il film è finito: perdono per la rinnovata tristezza. «Ognuno ha un compito cui assolvere, anche se costa».
Piero Terracina, da qualche anno, ogni settimana lo assolve con un paio di scolaresche.
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