Fratelli Hofer morti a 27 anni, Messner: «In montagna morire è parte del gioco»

Fratelli morti a 27 anni, Messner: «In montagna morire è parte del gioco»
di Stefano Ardito
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Venerdì 13 Novembre 2020, 07:01 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 19:08

Reinhold Messner 76 anni, altoatesino della Val di Funes, è l'alpinista più famoso del mondo, e ha traversato due drammi simili a quello della famiglia Hofer. Nel 1985 uno dei suoi fratelli, Siegfried, guida alpina, è stato ucciso da un fulmine sulle Dolomiti. Nel 1970 un altro fratello, Günther, è scomparso dopo aver salito insieme a Reinhold la parete Rupal del Nanga Parbat, 8125 metri, in Pakistan.
Non ha pensato a rinunciare all'alpinismo, dopo un dolore così forte?
«Certo che ci ho pensato, ma questa è la contraddizione dell'alpinismo. Non vuoi trovarti di nuovo in una situazione del genere, ma non sai rinunciare ad altre avventure. E quindi sono ripartito, per tante altre spedizioni, in Himalaya e ai Poli».
Al momento della scomparsa di Günther lei aveva 26 anni, ora ne ha compiuti da poco 76. Ha accettato quello che è successo tanto tempo fa?
«Sì, l'ho accettato. In quei giorni ho fatto tutto quello che potevo per Günther, per molti anni ho pagato i montanari che hanno continuato a cercare i suoi resti. Nel 2005, alla base della parete, sono state trovate delle ossa, uno scarpone, dei vestiti. L'analisi del Dna ha dimostrato che erano i suoi resti».
Lei è molto legato alla sua famiglia? Insieme a Hubert, un altro fratello, ha traversato la Groenlandia con gli sci.
«Eravamo nove figli, molto legati tra di noi. Mio padre Josef era un maestro di scuola, il suo stipendio non bastava a mantenerci, l'estate lavoravamo tutti nelle malghe della valle».
La morte di Günther sul Nanga Parbat ha segnato per sempre anche lei.
«Sì, era la mia prima spedizione himalayana, su una parete difficilissima e gigantesca».
Non doveva arrivare in cima da solo?
«Dall'ultimo campo sono salito verso la cima da solo, per un ripido canalone. Prima di arrivare Günther mi ha raggiunto. Non era previsto, è stata una sua libera scelta, contro la decisione del capospedizione».
In quel momento, lei si è sentito responsabile per suo fratello?
«Certo, anche se Günther era un forte alpinista, e sapeva cosa stava facendo. Ma io ero il fratello maggiore, il più esperto, sulle pareti delle Dolomiti i passaggi più difficili toccavano a me».
Per questo motivo siete scesi del Nanga Parbat per un altro itinerario?
«Sì, Günther mi ha confessato di essere stanco, non avevamo una corda, scendere per la via di salita sarebbe stato troppo pericoloso. Siamo scesi per la parete Diamir, più facile dell'altra ma battuta dalle valanghe. Ce l'abbiamo quasi fatta».
Era una via difficile? Era pericolosa?
«Certo! Era una parete gigantesca, su una montagna enorme, siamo scesi per ore nella bufera. Abbiamo bivaccato due volte, senza tenda né sacchi a pelo, la prima notte c'erano 30 gradi sottozero».
Come si è accorto della scomparsa di Günther?
«Scendevo per primo, ero stanchissimo, ho pensato che mi stesse seguendo. Alla base, quando ho visto che non arrivava, sono risalito e l'ho cercato finché non sono crollato. Dei montanari pakistani mi hanno trovato mezzo morto, e mi hanno portato a valle in barella. Mi sono congelato i piedi, al ritorno mi hanno amputato gran parte delle dita».
Cosa è successo al ritorno in Alto Adige?
«Per la nostra famiglia la colpa della tragedia era mia. E io, per molto tempo, mi sono sentito in colpa per essere sopravvissuto».
Ha mai pensato a come sarebbero diventati Siegfried e Günther, i suoi fratelli morti in montagna, se non fossero sopravvissuti?
«No, farlo sarebbe troppo difficile e doloroso».
Lei ha compiuto molte delle sue imprese più belle da solo, e altre insieme a un compagno. A cosa serve non andare da soli?
«Quando ci si avvicina al limite, la presenza di un altro è soprattutto un supporto psichico».
Dopo Günther, nelle sue spedizioni, lei ha perso altri compagni. Che rapporto ha avuto con la morte e con il dolore, nella sua vita di alpinista?
«Il senso di colpa per quello che è accaduto sul Nanga Parbat c'è ancora, ma ora so che la morte in montagna fa parte del gioco. Ho capito che fa paura finché c'è speranza di sopravvivere, ma quando la speranza finisce si accetta di morire».
 

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