Marco Zennaro ai domiciliari dopo il carcere in Sudan. Il padre: «Vive nel terrore di dover tornare in cella»

Marco Zennaro ai domiciliari dopo la prigione in Sudan. Il padre: «Vive nel terrore di dover tornare in cella»
di Davide Tamiello
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Martedì 15 Giugno 2021, 00:16

Papà Cristiano ha vissuto l’incubo in diretta, giorno dopo giorno. Quell’azienda, in Sudan, ce l’aveva portata lui, 25 anni fa. Altra epoca, altre difficoltà. Quando l’ha passata nelle mani di Marco, il suo primogenito, non avrebbe mai pensato di trovarsi in una situazione del genere. A Khartoum si è costruito legami, amicizie affetti. Per due mesi gli è sembrato che tutto gli si fosse rivoltato contro: a oltre 70 anni, si è trovato a combattere una guerra durissima per la libertà di suo figlio. Oggi, dopo due mesi di porte in faccia e di rifiuti, 75 giorni di frustranti attese, è arrivata finalmente una buona notizia.

Signor Zennaro, non è finita ma oggi potete concedervi di festeggiare.
«Siamo contenti ma è una gioia a metà.

Mentre stavamo uscendo gli hanno notificato la causa civile del miliziano. Il timore che possano riportarlo dentro c’è».

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Marco come sta?
«Fatica a camminare e non riesce a riposare perché è terrorizzato dall’idea che lo vengano a riprendere per rimetterlo in carcere. Almeno ha potuto farsi una doccia e sdraiarsi su un letto: sono cose che oggi per lui sono diventate un lusso. Resta il fatto che per ora non può tornare a casa, e vorrei tenerlo al sicuro».

Starà in una struttura protetta dell’ambasciata?
«No, è quello che avevo chiesto ma l’ambasciata da questo punto di vista sembra non sentirci. Ho parlato anche con il direttore generale della Farnesina Vignali: Marco non può tornare in prigione, ne va della credibilità del nostro paese».

Che cosa le ha detto quando è uscito da quel commissariato? Si ricorda le sue prime parole?
«Sì, ha detto solo: “Grazie papà”».

Ora che cosa succederà? Avete ancora due cause civili e una penale in piedi.
«Quella penale è quella relativa alla seconda causa, presentata da questa società di Dubai. Assurdo, sostengono che la Zennarotrafo, la ditta di Marco, non avrebbe consegnato la merce (trasformatori, ndr) che loro avrebbero pagato. Un’accusa che non sta in piedi e che non esiste: giovedì ci sarà l’udienza e speriamo che il procuratore la archivi esattamente come quella precedente».

Poi ci sono le cause civili: tra una e l’altra si parla di una richiesta di risarcimento di due milioni di euro.
«Ma anche quella scatenante, quella secondo cui sarebbero stati consegnati dei trasformatori con dei parametri diversi rispetto a quelli dichiarati, potremmo dimostrare che è assolutamente infondata. Basterebbe far analizzare i prodotti da un laboratorio terzo, imparziale. Abbiamo detto che avremmo pagato noi le analisi, ci saremmo accollati le spese di tutto. Eppure la società dell’energia elettrica nazionale, la Sedec, ha rifiutato. Non è un controsenso?»

Il morale in azienda com’è adesso?
«Come vuole che sia? È basso. Un’impresa non può rimanere senza titolare per oltre tre mesi. Ci sono 25 famiglie che dipendono da Marco, se non si chiude questa faccenda saranno a rischio anche i loro posti di lavoro. E poi me lo lasci dire, visto che ho fatto questo mestiere per una vita. Mi piange il cuore a vedere 400 trasformatori fermi e non utilizzati senza un valido motivo. La società elettrica ne ha un bisogno disperato: qui c’è un blackout ogni mezz’ora». 

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Che cosa vorrebbe dire alle autorità italiane?
«Sempre la stessa cosa: che tengano Marco al sicuro, che lo proteggano da nuovi arresti e detenzioni che altro non sono che uno strumento di tortura».

In Sudan però c’è anche chi vi è stato molto vicino.
«Si abbiamo avuto dei supporti importanti. Negli ultimi giorni il sottosegretario agli affari regionali Mohammed Yassim, che ha studiato e vissuto a Padova, è stato fondamentale. Ci ha fatto anche da traduttore, permettendoci di snellire anche l’iter burocratico e la consegna delle varie carte. Fa parte della nuova classe dirigente sudanese e sarà grazie a questi giovani che sono tornati in patria dopo essersi formati all’estero e che questo Paese potrà provare a rinascere». 

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