La giornalista del Tg1 e il collega con la flatulenza, dall'aria condizionata ai problemi di igiene: le liti in ufficio (e come difendersi)

La giornalista del Tg1 e il collega con la flatulenza, dall'aria condizionata ai problemi di igiene: le liti in ufficio (e come difendersi)
di Veronica Cursi
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Sabato 14 Maggio 2022, 10:35 - Ultimo aggiornamento: 15:19

Lo smart working (diciamoci la verità) ci aveva salvato per un po', ma ora che quasi tutti sono tornati in ufficio nessuno è più immune. Alzi la mano chi non ha mai avuto da ridire con un capo presuntuoso o un collega insopportabile ed è finito magari a litigare con il proprio vicino di scrivania per motivi tutto sommato banali: telefonate moleste, spifferi di freddo, puzza di cibo. Ne è un esempio il caso della conduttrice del Tg1 Dania Mondini che, dopo alcune frizioni con i superiori, sarebbe stata punita e confinata in una stanza con un collega che ha problemi di flatulenza ed eruttazioni.  Caso che è finito in Procura con l'ipotesi di mobbing. 

Daniela Mondini, conduttrice del Tg1: «Mi hanno messa in stanza un collega che soffre di flatulenza». Indagati per stalking vicedirettori Rai

Il condizionatore della discordia

Ma quali sono i motivi che portano più spesso ai conflitti con i colleghi? Sembra che l'aria condizionata sia uno dei fattori principali di litigi in ufficio. L'estate ogni anno porta scompiglio quando si tratta di regolare il termostato in cerca di un po' di sollievo contro la calura. E a farne le spese sono soprattutto i colleghi: 7 su 10 - secondo una indagine americana - arrivano a litigare sulla questione, senza venirne a capo. Accesa, spenta, troppo alta, troppo bassa.

C'è chi si lamenta apertamente, chi inizia a utilizzare giacche e cardigan per coprirsi un po', chi ancora, lancia occhiatacce ai colleghi per mandare messaggi di insofferenza. La legge regola le temperature invernali ed estive ottenute tramite climatizzazione: in estate, la temperatura non deve scendere in media sotto i 24 °C – o meglio sotto i 26 °C con una tolleranza di due gradi in meno – sia in ufficio che negli ambienti domestici. 

 

Quante ore si litiga in ufficio

In ufficio si litiga 7 ore a settimana. Lo ha rivelato un'indagine condotta da Robert Half, società di recruiting specializzato. I dipendenti, ogni settimana, passano più di due ore a litigare, con il risultato che ogni lavoratore, nella propria vita, trascorre ben 385 milioni di giorni sommerso dalle discussioni. E i conflitti che fanno perdere più tempo sono proprio quelli che nascono per cause di poco conto: un collega che parla al telefono con tono di voce troppo alto, uno scherzo di cattivo gusto, lamentele nei confronti del collega che scompare nei momenti di picco di lavoro o che mangia in continuazione lasciando briciole ovunque. E vogliamo parlare del forte odore di cibo che si sprigiona nella stanza quando il collega si porta il pranzo da casa? Altro motivo di scontro è la sciatteria: presentarsi in ufficio con un abbigliamento poco consono o poco curato potrebbe essere causa di lamentele. Così come avere una scarsa igiene personale può causare non pochi problemi nella vita quotidiana di un lavoratore, specie quando si è costretti a condividere uno spazio stretto. 

La legge ci difende

Gli ambienti di lavoro – afferma l’articolo 2087 del Codice civile – devono essere salubri: devono cioè garantire la salute del dipendente, non solo quella fisica, ma anche psichica. Ragion per cui, in presenza di colleghi dispettosi che rendono invivibile la vita in azienda, è possibile richiamarsi a tale norma per poter ottenere una tutela legale.

Il datore è responsabile

Tra le mosse per difendersi dai colleghi dispettosi di certo quella più intuitiva e immediata è la comunicazione al datore che dovrebbe prendere provvedimenti urgenti. E ciò proprio in ragione del suo dovere generale di garantire a tutti i dipendenti quella salute psicofisica di cui parla il Codice civile. Per questo è anche possibile agire contro il datore di lavoro per ottenere da questi il risarcimento del danno alla salute subito per colpa dei colleghi. Il datore ha infatti una responsabilità oggettiva per ciò che avviene in azienda, e quindi risponde anche delle condotte illecite che un lavoratore compie ai danni di altri.

Mobbing

Ci sono poi motivi di litigio più seri che possono spingere il lavoratore anche a fare denuncia. Il mobbing non è solo quello del datore di lavoro o dei vertici aziendali (cosiddetto «mobbing verticale»), ma anche quello dei colleghi di pari livello (cosiddetto «mobbing orizzontale»). A tal fine è sufficiente dimostrare di essere stati vittime di dispetti continui e sistematici, volti a mortificare il dipendente, ad alienarlo e umiliarlo.

Straining

Quando manca l’elemento della continuità e i dispetti, sia pur ripetuti, sono occasionali, si potrebbe parlare di straining che è una forma di illecito simile al mobbing, tuttavia, caratterizzato da una minore continuità delle condotte illecite. Anche in questo caso, però, bisognerà intentare una causa ai responsabili. Scopo di entrambi i tipi di processo è di ottenere il risarcimento del danno. Secondo la giurisprudenza, inoltre, il dipendente che si accanisce sul collega può essere licenziato. Pertanto, una volta ottenuta la condanna, si potrà anche chiedere l’allontanamento del molestatore in un’altra unità operativa.

La denuncia per stalking al collega

Che succede se un collega ti prende continuamente di mira? La Cassazione offre un ulteriore suggerimento per difendersi dai dispetti e dalle umiliazioni del collega di lavoro: quello della querela per stalking. Secondo i giudici supremi, infatti, questa scatta per le continue prese in giro e i dispetti al collega. E se, come nel caso esaminato, il collega ha anche un handicap viene contestata anche l’aggravante.

Diffamazione

Resta infine l’ipotesi del collega che parla male dell’altro collega, ma lo fa in sua assenza e davanti a due o più persone. In tal caso ci sono gli estremi della diffamazione che, a differenza dell’ingiuria, è rimasta reato. Quindi si può procedere, in questo caso, tramite querela ai carabinieri o alla polizia, oppure mediante deposito del relativo atto alla Procura della Repubblica. Anche in quest’ultima ipotesi, la vittima ha diritto a pretendere un congruo risarcimento del danno rapportato all’offesa subìta. 

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