Covid, la nicotina protegge dal virus? Studio francese, «pochi fumatori tra i ricoverati»

Covid, la nicotina protegge dal virus? Studio francese, «pochi fumatori tra i ricoverati»
di Claudia Guasco
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Domenica 22 Novembre 2020, 11:42 - Ultimo aggiornamento: 17:06

L’ipotesi sta agitando gli ambienti scientifici: la nicotina potrebbe avere un effetto protettivo nell’infezione da coronavirus. Gli studi avviati all’ospedale parigino di La Pitié-Salpêtrière a fine marzo sono giunti ai primi risultati e stravolgono le convinzioni scientifiche sostenute dalla maggior parte dei virologi secondo cui fumo e obesità sono i fattori che aumentano la letalità del Covid-19.

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Cerotti alla nicotina

Diversi studi internazionali hanno riscontrato un basso numero di fumatori tra i pazienti ricoverati e da qui sono partiti i ricercatori per cercare di fornire una risposta scientifica.

Nell’ospedale di Pitié-Salpêtrière è stato avviata una sperimentazione con cerotti alla nicotina su 350 pazienti ricoverati e 150 malati seguiti a casa. Ad aver spinto gli studiosi ad approfondire l’ipotesi, il fatto che tra i pazienti degli ospedali di tutto il mondo ci fosse un numero ridotto di fumatori abitudinari: «Solo il 5% aveva una dipendenza da tabacco», afferma Zahir Amoura, professore di medicina interna e autore della ricerca.

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«L’osservazione epidemiologica mostra che il fatto di fumare rende meno frequente l’infezione sintomatica da Covid». Dopo il via libera definitivo ai test da parte del ministero della Salute francese, il team di Amoura ha applicato patch alla nicotina con dosaggi diversi e con tre modalità diverse: preventiva per capire se possono funzionare per proteggere il personale medico-sanitario; terapeutica su pazienti ricoverati per cercare di diminuire la sintomatologia e sui pazienti gravi in rianimazione. Sempre secondo il neurobiologo francese, i pazienti fumatori ricoverati rischiano il deteriorarsi delle condizioni di salute anche a causa dello stop obbligato e immediato all’assunzione di tabacco, un effetto che sarà verificato durante studio. Numeri alla mano, «tra i fumatori ci sarebbe 80% di pazienti Covid-19 in meno rispetto al resto della popolazione generale dello stesso sesso e della stessa età», sottolinea Amoura, neurobiologo di fama mondiale, esperto dei recettori della nicotina, la cui ultima ricerca è stata pubblica sui “Comptes rendus de biologie” dell’Accademia delle scienze, di cui fa parte.

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Ricettori

Ma in che modo la nicotina fungerebbe da barriera? «L’ipotesi è che fissandosi sul recettore cellulare utilizzato anche dal coronavirus, la nicotina gli impedisca o lo trattenga dal fissarsi, bloccando così la penetrazione nelle cellule e il suo propagarsi in tutto l’organismo», spiega Jean-Pierre Changeux, membro dell’Istituto Pasteur e del Collège de France. I ricercatori ipotizzano che il «recettore nicotinico dell’acetilcolina» abbia un ruolo centrale nel propagarsi del virus e sia all’origine della varietà di sintomi del Covid, tra cui la perdita dell’olfatto e disturbi neurologici». Da qui l’idea di lanciare «sperimentazioni supervisionate» volte a sapere «se i cerotti alla nicotina riducono il tasso di infezione tra le categorie più esposte della popolazione», se «diminuiscono i sintomi nel malati ricoverati nei reparti di medicina generale e se curano chi è in terapia intensiva».

Fattore di rischio

La questione pone inevitabilmente problemi etici. Questo studio rischia di incoraggiare l’uso del tabacco, altamente nocivo. «Dovremmo scegliere sostanze che creano dipendenza come potenziale trattamento? È l’equilibrio rischio-beneficio, tra finire per essere dipendenti dalla nicotina e sperare che questo limiterà l’impatto di Covid-19», riassume un medico. Il direttore generale della sanità Jérôme Salomon ha giudicato «interessante» l’approfondimento in corso sulla nicotina, pur insistendo che non si dovrebbe «confondere la traccia della ricerca e i fatti» e che questo studio «non dovrebbe incoraggiare i tabagisti a riprendere a fumare».

La congettura dei ricercatori francesi va in direzione opposta rispetto a precedenti anamnesi e studi clinici che finora hanno indicato nel fumo un fattore di rischio aumentato di fronte al virus, alla stregua dell’obesità. Negli Usa si è fatto riferimento diretto a questi due fattori per spiegare l’alta percentuale di afroamericani contagiati. «È pericoloso anche solo ventilare che una pessima abitudine, come il vizio del fumo, possa aiutare a fronteggiare quella che oggi è la principale emergenza epidemica», mette in chiaro Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia. «Questa ipotesi non tiene conto di diversi fattori fondamentali», sottolinea l’esperto. «Il primo è che chi fuma è più soggetto a patologie cardiovascolari e respiratorie che aggravano la patologia. E il secondo fattore è che fumare è la principale causa di tumori al polmone», aggiunge. Esortando a fare attenzione nel trarre conclusioni che possono rivelarsi dannose.

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