Coronavirus Lombardia, il medico del Pronto soccorso nel "triangolo della morte": «Nessuno può immaginare cosa ho visto»

Giuseppe Di Sabatino
di Elena Filini
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Martedì 21 Aprile 2020, 05:30 - Ultimo aggiornamento: 13:07

TREVISO «Quello che abbiamo dovuto affrontare non sarà scritto nei manuali. Non posso descrivere il dolore di vedere una famiglia falcidiata».
Ha scelto di andare nel triangolo dove il Covid è stato più aggressivo: Crema, Cremona e Lodi. Destinazione: Pronto Soccorso Covid19.
«Sono stato nei Balcani e a Lampedusa. Ma la Pasqua nell’ospedale da campo di Crema resterà indelebile nella memoria».

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Giuseppe di Sabatino ha sulle spalle 25 anni di Pronto Soccorso negli ospedali del Veneto. Gli ultimi in provincia di Treviso. Oggi è Coordinatore delle Aree Contrattuali Medica e Veterinaria e Sanitaria Uilfpl Veneto. Ma dal 2002 è Tenente del Corpo Militare Speciale Ausiliario dell’Esercito Italiano Ordine di Malta. Quando è scoppiata l’emergenza legata al coronavirus ha parlato con la moglie e i due figli.
«Io vado» ha detto. Ha scelto di essere mandato in uno dei luoghi di massima emergenza, a Crema. «Lì è stato allestito l’ospedale da campo, e lì c’era più necessità. Sono arrivato il 1 aprile: il nostro nucleo collaborava con la task-force di medici cubani. Io ero dislocato al pronto soccorso degenze brevi: casi Covid che stazionavano qualche giorno nell’ospedale militare per poi essere indirizzati nei diversi nosocomi».
Come erano organizzati i turni?
«Noi facevamo turni di 6 ore tutti i giorni. Poi si dormiva nell’ex Tribunale di Crema, dove erano stati allestiti dei dormitori. Brande e sacchi a pelo. Ma siamo abituati».
Ha prestato servizio per due settimane, Pasqua inclusa.
«Sì, in quei giorni c’era più bisogno di personale per cercare di seguire al meglio i ricoverati. Bisogna considerare che non ci siamo trovati di fronte a malati “normali”, ma a persone che improvvisamente hanno lasciato le case e i parenti, che sono state travolte. Quindi non c’era solo bisogno di curarli, ma anche di rassicurarli, ascoltare le loro storie, evitare che si sentissero dei numeri».
C’è una storia che l’ha colpita?
«Sì, quella di una famiglia di cinque persone in cui è rimasta viva solo una persona. Il paziente era stato ricoverato da noi, parlando e chiedendo riferimenti è emersa a poco a poco questa verità. Da rimanere senza parole. Ci sono state diverse storie così in Lombardia, famiglie falcidiate, una generazione quasi scomparsa».
Lei da tempo ha scelto di abbinare alla professione il soccorso ausiliario in aree di crisi.
«Sono stato nei Balcani in missione nel 2007. Sono stato a Lampedusa nel 2009. Sono esperienze forti, senza dubbio. Ma nulla paragonato a ciò che ho visto a Crema».
Perchè afferma questo?
«Perchè il virus è invisibile e rende tutti vulnerabili. Perché noi a volte non abbiamo risposte, ma questo paradossalmente ci rende molto più vicini ai pazienti. Credo durante questa pandemia si sia realizzato il rapporto perfetto tra medico e paziente. Noi, categoria sempre un po’ bistrattata, abbiamo guadagnato la fiducia dei malati. Una sensazione impagabile».
Come è stato collaborare con la task-force di medici cubani?
«Sono stati splendidi: personale preparato, ossequiosi, premurosi e puntuali. La popolazione li ha accolti come salvatori».
Come vi ha accolto la società civile?
«Con una tenerezza commovente. Le signore ci portavano cibo ogni giorno, se andavi in edicola a comprare il giornale era impossibile pagare. Senza contare le lettere dei bambini. Una mattina un bimbo di 5 anni è arrivato coi biscotti. Ci ho messo dentro i superpoteri così sconfiggete il virus, ci ha detto».
Cosa le resterà di quest’esperienza?
«Siamo di fronte ad una catastrofe che ha causato quasi 24 mila morti. Il corpo militare mi ha dato la possibilità di poter fare, nel mio piccolo, la mia parte. La dignità di questi pazienti e la fiducia verso di noi sono le cose belle che ricorderò».

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