Coronavirus, al Trivulzio cresce il focolaio: «Qui si continua a morire e i positivi sono oltre 200»

Coronavirus, al Trivulzio cresce il focolaio: «Qui si continua a morire e i positivi sono oltre 200»
di Michela Allegri
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Martedì 21 Aprile 2020, 07:12 - Ultimo aggiornamento: 16:44

Duecento morti su mille degenti, almeno duecento positivi. Crescono numeri del contagio e non si placa la bufera sul Pio Albergo Trivulzio, istituto finito al centro della maxi-inchiesta della Procura di Milano sulla gestione dell'emergenza sanitaria nelle case di riposo lombarde. E ai dati si aggiungono, ancora, testimonianze choc che ora sono finite al vaglio degli inquirenti. Ci sono le dichiarazioni dei parenti degli anziani e, soprattutto, quelle di infermieri e operatori: raccontano della mancanza di mascherine durata più un mese dopo lo scoppio dell'epidemia e anche delle «minacce» contro chi voleva usarle, perché il rischio era che i pazienti si spaventassero. Gli stessi pazienti che, nonostante sintomi chiari, «non venivano isolati». Una pratica che, oltretutto, sarebbe proseguita. Un'infermiera ha infatti dichiarato che ancora qualche giorno fa sarebbero stati trasferiti alcuni anziani «da un reparto all'altro, lo fanno la sera, di nascosto, senza aver fatto nemmeno i tamponi», mentre gli ospiti «continuano a morire».
L'inchiesta si è allargata anche all'operato della Regione Lombardia e delle Agenzie di tutela della salute.

Trivulzio, l'infermiera: «Continuano a trasferire i pazienti in altri reparti senza tamponi». I parenti: «Da marzo a oggi 200 morti su 1.000 degenti»

LE DELIBERE
Nel mirino dei pm ci sono la delibera con cui l'8 marzo è stato dato il via libera al trasferimento di pazienti Covid nelle Rsa e presunti ritardi nelle comunicazioni. Mentre la Finanza ha già iniziato a raccogliere segnalazioni, dichiarazioni, testimonianze e denunce sia di lavoratori del Trivulzio, che dei parenti degli anziani. Il direttore generale Giuseppe Calicchio è già stato indagato per epidemia e omicidio colposi.
Il timore è che i numeri continuino a crescere. Alessandro Azzoni, portavoce del Comitato Giustizia per le vittime del Trivulzio, parla di 200 morti e «circa 200» positivi. Mentre fonti interne raccontano che alla Baggina l'intero reparto di pneumologia sarebbe diventato Covid, perché i 24 pazienti sono tutti positivi. «Il personale è sotto organico - ha aggiunto Azzoni - su 1.100 operatori quasi 300 sono in malattia. C'è un silenzio assordante da parte delle Istituzioni, a partire dalla Regione».

LA SICUREZZA
L'allarme sicurezza è stato lanciato, oltre che dagli operatori, anche da molti parenti, che parlano di carenze nei protocolli che avrebbero favorito il contagio. Un altro veicolo di trasmissione del virus, a loro dire, sarebbe stato l'arrivo di pazienti dagli ospedali. Per quanto riguarda i dispositivi di protezione, un'infermiera che lavora al Frisia di Merate (Lecco), istituto che fa capo al Trivulzio, ha invece messo a verbale che mancavano i «presidi sanitari» di sicurezza, che i pazienti con sintomi «non venivano isolati» in modo corretto e che i parenti continuavano ad entrare anche dopo lo scoppio dell'epidemia. Ieri proprio al Frisia, come in altre Rsa lombarde, c'è stata un'ispezione del Nas. Un'altra operatrice ha dichiarato che «la prima mascherina si è vista il 22 marzo. Il 12 marzo chiesi di averne una, ma a me come ad altre colleghe, che le avevano portate da casa, venne intimato dalla caposala di non usarle». Anche Cgil e Cisl hanno parlato di «velate minacce» in una lettera di diffida inviata ai vertici dell'istituto. Nel frattempo i reparti «sono anche scoperti di personale - ha aggiunto una dipendente - perché più di 200 operatori sono a casa in malattia o in quarantena e due colleghi sono in terapia intensiva».
C'è un aggiornamento anche su un altro fronte. Sono stati sospesi alcuni lavoratori della coop Ampast che hanno denunciato presunti illeciti nella gestione dell'emergenza da parte della Fondazione Don Gnocchi, altro istituto al centro delle indagini. Mentre la fondazione precisa «di aver legittimamente esercitato il proprio diritto contrattuale di non gradimento nei confronti della cooperativa» perché quei lavoratori «a mezzo stampa e televisione, avevano espresso giudizi gravi e calunniosi».

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