Coronavirus, il dramma di un figlio: «In corsia nessuna precauzione, così ho perso mamma e papà»

Coronavirus, il dramma di un figlio: «In corsia nessuna precauzione, così ho perso mamma e papà»
di Claudia Guasco
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Sabato 28 Marzo 2020, 07:37 - Ultimo aggiornamento: 15:43

MILANO In venti giorni Francesco Zambonelli, 55 anni, di Villa di Serio, ha perso entrambi i genitori. La mamma Angiolina aveva 84 anni e il papà Gianfranco uno di più: per lui la diagnosi ufficiale è coronavirus, per la moglie no, ma la concomitanza dei tempi e luoghi è quantomeno dubbia. Un'epidemia familiare che non ha risparmiato nemmeno una zia, la terza vittima. E a far perdere il sonno al figlio è soprattutto un particolare: sua madre era ricoverata all'ospedale di Alzano Lombardo, reparto di medicina generale, fulcro dell'epidemia che dalla Valle Seriana è migrata a Bergamo e Brescia facendo strage. Due giorni prima che il nosocomio venisse sigillato per il primo caso di Covid-19, le infermiere del turno serale indossavano già le mascherine. «E non quelle chirurgiche, ma le ffp2. Quell'immagine mi dà il tormento, significa che qualcuno già sapeva del contagio ma non è stato fatto nulla per proteggere i pazienti e i familiari».

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ABBRACCI AL FUNERALE
È il 12 febbraio quando Angiolina Cavalli viene ricoverata. «Per uno scompenso cardiaco. Dopo sette, otto giorni che era lì le è venuta la febbre. Aveva crisi respiratorie, le è stato somministrato l'ossigeno, quarantott'ore di agonia e alle due di notte di sabato 22 è spirata. Io ero accanto a lei, ero di turno a vegliarla», racconta Zambonelli. Intanto però si ammala anche il papà Gianfranco. Da due giorni ha tosse e febbre. «Abbiamo telefonato alla guardia medica che gli ha prescritto tre giorni di antibiotico. Io e mia sorella accompagniamo la salma della mamma nella chiesina di San Lorenzo, vicina alla parrocchia, e mio padre resta a casa». La chiesina è piena, Angiolina era una persona allegra, sapeva farsi voler bene e in tanti vanno a salutarla per l'ultima volta. Accanto alla bara ci sono strette di mano, baci e abbracci tra parenti a amici. Una bomba per il contagio. «Mio padre ha partecipato al funerale. Non solo. Sabato mattina siamo andati in banca a bloccare il conto, in Comune a firmare le carte per la cremazione e nessuno ci ha avvisato: attenzione, eravate in ospedale, potreste essere infetti. Lui aveva la febbre dal 20 febbraio e usciva solo per andare a trovare la mamma, non può che avere preso lì il virus».

Il termometro non scende dai 39, il figlio è sempre più preoccupato. «Chiamo il medico ma è in ferie, un collega che mi consiglia di passare in studio a prendere la ricetta per un altro ciclo di antibiotico, perché tre giorni non bastano. Ma di visitarlo non se ne parla nemmeno. Il 28 febbraio, dopo varie telefonate tra guardia medica e 112, mi dicono di portarlo al pronto soccorso dell'ospedale di Alzano. Qui gli fanno le lastre, il tampone e domenica primo marzo arriva l'esito: positivo al coronavirus. Trasferimento immediato al Papa Giovanni XXXIII. Non lo abbiamo più visto».
Da quel momento un pensiero insegue Francesco Zambonelli: «Se domenica 23 si è saputo della positività del paziente al Covid-19, il test è stato fatto prima. Sabato però le infermiere avevano già le mascherine con il filtro. Qualcuno aveva avvisato loro di proteggersi dal contagio in atto?».

VETTORI DELL'INFEZIONE
Nessuno tuttavia fa altrettanto con chi era in ospedale, afferma Zambonelli, e «quando siamo usciti io e i miei parenti siamo diventati uno dei veicoli principali dell'epidemia». La quarantena scatterà solo il primo marzo a disastro compiuto: «Ce lo ha comunicato la Asst, spiegandoci che ci avrebbero chiamato due volte al giorno per monitorare la nostra temperatura. Li abbiamo risentiti solo il 12 marzo, quando ci hanno informato che l'isolamento era finito. Non mi sembra normale. Ora vengo qui nella casa vuota dei miei, per dare da mangiare alle galline. Non ci credo ancora, mi sembra un incubo e che prima o poi mi sveglierò».
 


 

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