Coronavirus, guarito dopo 2 settimane di coma: «Ho visto la morte da vicino, gli angeli mi hanno salvato»

Coronavirus, guarito dopo 2 settimane di coma: «Ho visto la morte da vicino, gli angeli mi hanno salvato»
di Claudia Guasco
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Lunedì 23 Marzo 2020, 07:40 - Ultimo aggiornamento: 12:35

«Anche a quarant'anni puoi morire senza sapere perché». Dopo tre settimane in ospedale, di cui due intubato in coma farmacologico in terapia intensiva, dieci chili in meno e una spossatezza che gli impedisce anche di salire le scale, Michele Vitiello continua a chiedersi come sia stato possibile. «Sono atletico, sportivo, ho sempre goduto di ottima salute, mai fatto nemmeno un'influenza, l'unico dottore che avevo visto fino a quel momento era il dentista. E ho 41 anni, la metà del paziente tipo di coronavirus. Eppure mi sono ammalato anch'io e probabilmente non sarei finito attaccato all'ossigeno se, dopo cinque giorni di febbre a 39 e mezzo, qualcuno mi avesse detto che cosa avevo».

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E nel frattempo le sue condizioni sono precipitate.
«Il 23 febbraio mi è venuta la febbre, calava con la tachipirina ma risaliva continuamente. Al quinto giorno ero come al primo. In televisione continuavano a trasmettere servizi sul coronavirus, i casi aumentavano e mi sono detto: ho modo di verificare se ho una normale influenza o qualcosa di più? Vivo a Brescia e sono consulente informatico forense, lavoro ai casi criminali, collaboro con 28 procure e 20 tribunali in tutti Italia. Viaggio molto, faccio 70.000 chilometri all'anno solo con l'auto, vado dove c'è il crimine. Questo probabilmente mi ha messo in contatto con una persona contagiata, che non ho idea di chi sia. Il problema è che chiamavo i numeri della Regione e mi facevano sempre le stesse tre domande. È stato in una zona rossa? No. Ha avuto contatti con persone provenienti dalla Cina? No. Fatica a respirare? Non in modo particolare. E allora chiami il suo medico di famiglia, questo è il protocollo, era la risposta. Sempre in modo brusco. A Brescia non c'erano stati altri casi, io ero il primo o il secondo, se mi avessero preso per tempo non sarei finito intubato».

E invece l'hanno presa per i capelli i medici della Fondazione Poliambulanza di Brescia.
«Che non so come ringraziare. Grandi professionisti di straordinaria umanità. Dopo giorni di tentativi falliti, alla fine il 28 febbraio arriva un'ambulanza. Io mi ero preparato uno zainetto con oggetti di prima necessità, pensavo di fermarmi in ospedale per una notte e mai avrei pensato di restarci tre settimane. Mi metto in tasca un po' di soldi, la carta d'identità, il telefono, salgo sul mezzo e subito iniziano a farmi alcuni test. Nel giro di pochi minuti l'ambulanza parte a sirene spiegate, sembrava che avessero raccolto un moribondo».

In effetti era quasi così.
«Avevo una polmonite bilaterale, in uno stato avanzatissimo. Un medico mi informa: l'unica cosa che possiamo fare è intubarti, se vuoi saluta le persone care. Non riuscivo a credere a quelle parole. Ho chiesto: sono in pericolo di vita? Purtroppo sì, mi ha risposto il dottore. Telefono alla mia ex moglie per salutare i bambini, chiamo mia madre per dirle che la situazione è ben più grave di come appariva. Da quel momento sono stato in coma farmacologico per quindici giorni, dopo otto mi hanno praticato un piccolo foro alla gola per inserire un tubicino che arriva ai polmoni, perché per più di otto giorni non si può restare intubati. Mi sono risvegliato il 13 marzo con degli angeli intorno, medici e infermieri, che hanno fatto di tutto per salvarmi e per farmi stare meglio. Stai benissimo, stai guarendo, mi confortavano».

E adesso?
«Va meglio, ma riprendersi è lungo e faticoso. Sono a casa da giovedì scorso, ho dolori ovunque perché essendo stato sdraiato per tanto tempo ho perso forza nelle gambe. Non ho mangiato per molti giorni e ho perso dieci chili, mi sento spossato. Cucino e poi mi siedo. Lavo i piatti e mi devo sedere di nuovo. Ma non mi importa del fatto che non riesca a stare in piedi o fare le scale, quando torni a vivere ti senti miracolato. Quando mi hanno detto che ero in pericolo di vita, da persona sempre in salute non ero pronto. Anche perché solo qualche giorno prima chi doveva valutare le mie condizioni di salute mi diceva che non ero infetto e invece ero già positivo. Ora aspetto solo il doppio tampone che accerti la negatività per fare i compiti e giocare a pallone con i miei figli di sei e otto anni. Li posso vedere solo in videochiamata».

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