Il flop di Katowice, se il clima peggiora tra i rinvii

di Erasmo D'Angelis
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Lunedì 17 Dicembre 2018, 01:14
Arrivederci in Cile nel 2019 alla Conferenza sul clima numero 25, e forse in Italia a quella del 2020. Dopo i fiaschi della Cop 22 di Marrakesch e della Cop 23 di Bonn, anche a Katowice dopo due settimane di discussioni, prolungate di una maratona altre 24 ore, hanno ancora rinviato di altri due anni la data di inizio della madre di tutte le battaglie planetarie: la lotta per il raffreddamento del clima. La complessa e burocratica macchina giuridico-negoziale internazionale non è potuta andare oltre un generico documento finale che adotta regole comuni ma rimanda ai futuri negoziati tutti gli impegni concreti. Mentre continua inesorabile il countdown che riduce il tempo delle scelte, il mondo più che frenare l’effetto serra, tira il freno a mano sulle azioni concordate a Parigi il 12 dicembre del 2015, e sceglie ancora di non scegliere e di ritardare l’impegno preso della riduzione delle emissioni al 45 per cento a livello globale entro il 2030.

Non è bastato a muovere la diplomazia climatica nemmeno l’ultimo agghiacciante rapporto dell’Onu che segnala il pericolo che il clima sfondi presto il muro dei 2 gradi di riscaldamento, raggiungendo i 3 °C entro fine secolo, il doppio rispetto all’incremento massimo concordato a Parigi, la soglia insostenibile per vaste zone del Pianeta: dai piccoli stati insulari del Pacifico a tratti di coste del Mediterraneo in balia dell’aumento del livello del mare che temono un futuro da migranti climatici, dalle ampie aree dell’Africa e del Sudest asiatico a quelle degli Stati Uniti esposte a eventi meteo estremi come ondate di caldo e alluvioni con vittime e l’esborso finanziario per riparare i danni sempre più elevato. La verità scomoda, emersa nella gelida Polonia, è stata ripetuta allo sfinimento dagli scienziati dell’Onu: “Abbiamo ancora 12 anni per invertire la rotta”, ma le big fossili continuano ad avvelenare l’atmosfera più di prima, come conferma il rapporto di “Climate Transparency”, l’Osservatorio internazionale che ha rilevato come 15 nazioni del G20 hanno battuto tutti i record delle emissioni di gas killer da fonti fossili proprio nel 2017 con l’82% dell’energia totale prodotta grazie alle sempre più ricche sovvenzioni pubbliche, cresciute del 50% negli ultimi 10 anni, e fino al tetto dei 147 miliardi di dollari di sussidi nel 2016. Solo l’Italia, promotore con 40 Paesi della “Coalizione per ambizioni più alte”, ha potuto annunciare entro il 2025 l’eliminazione del carbone come fonte energetica, chiedendo di poter ospitare il summit del 2020 al resto del mondo.

Ha vinto la “sovranità energetica”, cavallo di battaglia degli Usa di Trump che si è sfilato da ogni impegno e, via tweet, aveva dettato questa linea ai suoi negoziatori di Katowice: “...forse è il momento di porre fine al ridicolo ed estremamente costoso accordo di Parigi, e restituire i soldi alle persone sotto forma di tasse più basse”. Seguito da Russia, Australia, Arabia Saudita, Brasile, Sudafrica, India, Argentina, Canada e altre Nazioni hanno mosso ministri e sherpa affinché la Conferenza non riuscisse a mettere nero su bianco tempi e dettagli dei meccanismi di controllo delle emissioni di anidride carbonica e della deforestazione in ogni Paese, e per il trasferimento di 100 miliardi di dollari in tecnologie per produrre energia pulita nelle aree più povere, due pietre miliari applaudite all’unanimità tre anni fa Parigi. A poco è servito anche il pressing accorato del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierrez, che fino all’ultimo ammoniva a non “sprecare l’opportunità di Katowice perché sarebbe non solo immorale, ma un suicidio”. Il fronte “negazionista” guidato dagli Stati Uniti, si è battuto per non riconoscere gli allarmi scientifici e finanziari dell’Onu, e l’utilità del Nationally Determined Contributions per il percorso di de-carbonizzazione nei paesi in via di sviluppo, lasciando pagine bianche sui Rulebook delle linee guida per centrare il target del riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, stabilizzando l’innalzamento a 1,5 gradi.

Servirebbe una governance mondiale che non lasci i problemi al futuro. E’ quello che continua a reclamare l’Europa che vede al suo fianco, per la prima volta, la Cina che ha mosso le sue reti diplomatiche per il rispetto degli impegni. La Cina ha stabilizzato le emissioni di carbonio nel 2015-16, riducendo la dipendenza dal carbone e sta cogliendo l’opportunità dell’economia green e oggi è leader globale nel finanziamento delle energie pulite con 40 miliardi di dollari di investimenti in tutto il mondo e il 60% della produzione mondiale di celle solari che hanno fatto crollare nel 2017 l’intensità di carbonio del 46% rispetto ai livelli del 2005, ed è il più grande mercato al mondo di Electric Vehicles con circa 777.000 vetture vendute nel 2017. Sta approfittando, insomma, dell’arretramento americano guadagnando posizioni in un settore strategico creando milioni di nuovi posti di lavoro nella green economy. 
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