Reddito di cittadinanza, così foraggia le fabbriche dei falsi. Operai in nero per non perdere l'assegno

Aziende subappaltatrici della moda producono anche accessori contraffatti

Così il Reddito di cittadinanza foraggia le fabbriche dei falsi. Operai in nero per non perdere l assegno
di Antonio Crispino
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Lunedì 10 Gennaio 2022, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 18:11

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I lussuosi accessori dell’alta moda prodotti da percettori di Reddito di cittadinanza pagati in nero. Non solo. C’è anche la contraffazione dietro lo scandalo che si consuma ogni giorno nel triangolo industriale di Casandrino, Grumo Nevano e Sant’Antino, un piccolo fazzoletto dell’immensa provincia di Napoli disseminata di microscopici opifici nascosti in seminterrati e sottoscala. È l’altra ricca fetta di mercato di queste aziende dotate di personale talmente specializzato da rendere irriconoscibile il prodotto falso dall’originale. Eppure, di tutta questa maestria non c’è nessun indizio: un cartello, un’insegna, una pubblicità. Niente. Il prodotto tanto più è buono quanto confezionato in silenzio, clandestino.

 

LA FABBRICA

Entriamo nell’ennesima fabbrica di abbigliamento, sempre in un seminterrato. Ci fingiamo imprenditori interessati alla produzione di capi contraffatti. Mostriamo un cartamodello di una gonna e una giacca, la spacciamo per un modello di Dolce & Gabbana e pretendiamo che sia fatto uguale, con tanto di etichetta. «Non c’è problema», risponde uno di loro. Ci fa anche il prezzo: 1,30 euro per tagliare e adesivare ogni giacca. Sotto le macchine per cucire sfilano veloci dei jeans di un noto marchio campano, non si capisce se sia originale o falso. In negozio vengono prezzati 90 euro l’uno. Ci sono 12 operai a lavorare, tutti in nero, 4 percepiscono il Reddito. Alcuni hanno iniziato a lavorare da meno di una settimana. Li paga 15 euro al giorno.
Un know how che aziende come la Gi Emme, subappaltatrice della Fendi, sa mettere a frutto. È poco distante.

Nel cortile c’è un’Audi fiammante, l’ultimo modello di fuoristrada, targa tedesca. Tutto attorno è fatiscente. Niente lascia pensare che qui si produca il cuore del Made in Italy. Il capitano dei carabinieri che ci accompagna, Andrea Coratza, raccomanda cautela: «Qui di soldi ne girano parecchi perché quelli che producevano una qualità media sono stati spazzati via dai cinesi mentre è rimasta la parte d’élite che lavora a braccetto con l’eccellenza».

Enzo, il titolare della Gi Emme Moda, ci elenca le tante griffe che ha servito. L’anno scorso: Louis Vuitton, Yves Saint Lauren, Gucci, Guerriero. Negli scaffali ha i cartamodelli e i pellami di Lancel, Marni, the Bridge. Ci mostra le bolle e gli ordinativi per accreditarsi. Quello che non ci mostra è un piccolo laboratorio in fondo alla fabbrica in cui parallelamente alle borse di marca produce la versione contraffatta. Anche la logistica è organizzata come una specie di doppio forno: da una parte l’ingresso con il ritiro merci del comparto legale e dal lato opposto, seminascosti, accessi e vie di carico per gli accessori contraffatti. In un cassetto ha decine di cliché dei grandi nomi della moda mondiale. Lo scoprono poco più tardi i carabinieri della compagnia di Giugliano. In diversi scatoloni ci sono centinaia di riproduzioni perfette dei marchi che ci aveva elencato. Un centinaio di borse che sul mercato parallelo valgono qualche migliaio di euro.

 

LA CONTRATTAZIONE

Per avere un’idea del business basti pensare che solo per sviluppare questo “ramo d’azienda” dal 22 dicembre l’imprenditore aveva assunto un tagliatore di pelli specializzato, Gennaro, 50enne, disoccupato e destinatario di Reddito di cittadinanza, neanche a dirlo. Con lui aveva stretto un patto: non ti metto in regola così non perdi il sussidio, in cambio mi lavori qualche ora in più. La contrattazione è tutta verbale, il datore di lavoro è anche amministratore, operaio, legale, assistente sociale, amico.

Gennaro ha una compagna che percepisce 700 euro al mese di reddito di cittadinanza, dicono sia bravo a ritagliare il prezioso pellame senza sprecarne nemmeno un centimetro. Ci mostra alcuni modelli, in particolare una borsa Fendi chiamata “Pomodorino” venduta in negozio a 1.200 euro. Non ha una sbavatura. Ci dice che anche se i carabinieri dovessero chiudere quella fabbrica lui sa già dove andare il giorno dopo. Così è.
I carabinieri di Grumo Nevano dopo l’ispezione sequestrano i capannoni anche perché privi di qualunque misura di sicurezza e tracciamento dei rifiuti. Il giorno dopo ritroviamo Gennaro a Casandrino, il comune accanto, davanti all’ennesima fabbrica di confezioni, stavolta gestita da bengalesi che qui sono arrivati come apprendisti e ora sono diventati imprenditori dopo aver imparato bene il sistema.
 

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