L'agguato ad Attanasio, il blindato venne chiesto ma non fu consegnato

Un anno fa l’attacco che costò la vita all’ambasciatore italiano in Congo

L'agguato ad Attanasio, il blindato venne chiesto ma non fu consegnato
di Valentina Errante
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Martedì 22 Febbraio 2022, 12:57 - Ultimo aggiornamento: 07:19

«Era un fatto privato. È la sua vita insomma, aveva scelto dove andare», così la moglie di Rocco Leone, vicedirettore del Pam nella Repubblica democratica del Congo, indagato per non avere protetto né informato l'ambasciatore Luca Attanasio dei concreti rischi del viaggio nel quale è stato ucciso, commentava il 27 febbraio scorso al telefono con un'amica. Esattamente un anno fa, in quella trasferta Attanasio rimase vittima di un agguato insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, che per quella missione aveva chiesto un'auto blindata, che non è mai stata consegnata e all'autista Mustafà Milambo a Goma.

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È quanto emerge dagli atti della procura di Roma che ha chiuso le indagini, accusando Leone e il responsabile della sicurezza del Pam, Mansour Rwagaza di omicidio colposo e omesse cautele. Leone sostituì il nome dell'ambasciatore con quello di un funzionario del Pam per evitare la lunga procedura che avrebbe di fatto bloccato la visita nella scuola. Un progetto per il quale l'Italia avrebbe dato un contributo al Programma di un milione di dollari.
AUTO BLINDATA
È stato il carabiniere Luigi Arilli, anche lui in missione nella Repubblica democratica del Congo, a riferire di avere sentito quando il collega ha chiamato Mansour con il suo cellulare congolese: «Ho assistito io alla conversazione, perché ci trovavamo insieme nella stessa stanza.

Durante la telefonata, dopo essersi presentato, Iacovacci ha chiesto a Mansour informazioni sulle misure di sicurezza che sarebbero state predisposte nel corso della missione e in particolare se sarebbe stato utilizzato un veicolo blindato per trasportare l'Ambasciatore». E aggiunge: «Mansour garantiva la presenza di autovetture blindate, ma fornite da altri organismi, perché il Pam non ne aveva di proprie, almeno da quello che ho capito. Mansour riferiva che anche i dispositivi di protezione individuale sarebbero stati forniti da altri organismi. Per dispositivi di protezione individuale intendo i giubbetti antiproiettile». Arilli ha riferito a verbale al Ros, che ha condotto le indagini, coordinate dall'aggiunto Sergio Colaiocco, che Iacovacci aveva anche chiesto informazioni generali sulla sicurezza nella zona «Mansour gli ha risposto che si sarebbe svolto un briefing sulla sicurezza, subito dopo l'arrivo a Goma. Il 19 febbraio. Da parte nostra, non sono state chieste informazioni sull'eventuale presenza di scorte armate».

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UN MILIONE DI DOLLARI
È invece il direttore del World food program, che all'epoca dell'omicidio aveva il Covid ed era sostituito da Leone, a riferime ai militari che l'Italia avrebbe dato un consistente contributo al programma: «Sono arrivato nella RDC il 15 gennaio 2021 ma il 19 sono risultato positivo al Covid, quindi ho potuto presentare le credenziali solo l'8 febbraio. Qualche giorno dopo il mio vicario, Rocco Leone mi ha parlato di un contributo italiano di un milione di dollari e mi ha riferito che ci sarebbe stato un viaggio con il defunto ambasciatore Attanasio e qualche giorno dopo ho dato il via libera firmando l'ordine di missione, la mia conoscenza della visita è avvenuta 2-3 giorni prima della partenza della missione». Di fatto, in base alle indagini, è stata intenzionalmente omessa la richiesta di security briefing a Monusco (Cioè all'Onu) e il nome dell'Ambasciatore nella richiesta di security clearance al dipartimento sicurezza
Concludono i carabinieri del Ros in un'informativa: «Dunque, l'insieme di queste omissioni di procedure tutte accomunate dalla finalità di coinvolgere nel processo di SRM, fa ritenere esse siano state intenzionali, volte a salvaguardare lo svolgimento della missione dei tempi previsti. Da questo punto di vista, l'unica persona che aveva interesse a che la missione venisse svolta, per soddisfare la richiesta dell'ambasciatore italiano, era Rocco Leone, il quale, preso l'impegno, aveva l'esigenza di mantenerlo. Le procedure, quindi non vennero rispettate salvare la missione, «attraverso l'omissione della comunicazione a Monusco e, in generale, di qualunque informazione che riguardasse la presenza dell'ambasciatore italiano nella missione, cosa che avrebbe dato avvio a una rivalutazione del rischio con il conseguente rischio di cancellazione della missione stessa». Il tempo stringeva e la presenza di un diplomatico italiano avrebbe richiesto valutazioni più approfondite.

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È sempre Paola Colli, la moglie di Leone intercettata che commenta con le amiche l'agguato: «Ha detto Rocco, non era pericolosa, cioè è pericolosa in assoluto, ma relativamente a com'è il Congo no! E allora non dovevano andà in Congo allora. Non dovevano mettere piede nel Paese per stare sicuri, hai capito?» L'amica chiede come mai non ci fosse una scorta e se l'epilogo di questa vicenda potesse in qualche modo avere eventuali ripercussioni sull'impiego professionale del marito Rocco: «Ieri era preoccupato anche per quello poi mi ha detto: no, meno male che hanno guardato tutto, è stato fatto tutto secondo le regole, secondo le procedure». E invece Leone, proprio in quei giorni, si era sottratto all'interrogatorio del Ros, fingendo di essere in ospedale.
 

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