La vittoria negata/ Il coraggio di riscoprire il successo di un popolo

La vittoria negata/ Il coraggio di riscoprire il successo di un popolo
di Mario Ajello
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Giovedì 1 Novembre 2018, 12:12 - Ultimo aggiornamento: 2 Novembre, 08:18

Dalla vittoria mutilata alla vittoria negata. Questa la sfortuna della Grande guerra nell'Italia che difetta di orgoglio. Visto da sinistra, quel successo è stato un'insidia. Per Sandro Pertini ad esempio, da presidente della Repubblica, ogni commemorazione del 4 novembre era buona per sottolineare quanto la guerra partigiana fosse l'unica di cui essere fieri. Mentre la prima guerra mondiale era stata la suprema disumanità, crudele, devastatrice, tragicamente impotente a risolvere i veri problemi degli uomini e averla vinta rappresentava un passaggio storico poco rilevante, certamente meno eroico rispetto all'epopea della Resistenza e al mito del 25 aprile con cui nessun altro evento storico poteva rivaleggiare. 

L'avanzata che sembrava impossibile

Dunque quella vittoria non andava vissuta come una vittoria, non doveva essere rivendicata con forza ma patita come un accidente della storia. Così è stato troppo a lungo il rapporto tra gli italiani e il conflitto mondiale che si è cercato di costruire nel secolo lungo che è stato il 900, di cui alcune propaggini ideologiche si avvertono tuttora. 
Una guerra ingiusta in quanto considerata incubatrice del fascismo, anti popolare e imperialista (il capo del governo Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino volevano la grande Italia, il che era una legittima aspirazione nazionale imputata loro come colpa) e una inutile strage (così proverbialmente la chiamò Benedetto XV il primo agosto 1917) non potevano produrre una vittoria in cui credere e far credere fino in fondo. Tanto è vero che i socialisti, in generale la sinistra e parte del mondo cattolico cosiddetto progressista in questi cento anni non hanno partecipato alle celebrazioni del 4 novembre. E don Milani, a sua volta concentrato unicamente sul mito della Resistenza, ne parlava e ne scriveva malissimo: Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti poteva ottenere gratis quello che fu poi ottenuto con 600.000 morti?

La trincea della memoria

Una guerra maltrattata, per la quale inglesi e francesi ci hanno sempre considerato sconfitti travestiti da vincitori. Fin quasi a farcelo credere. Il presidente Georges Clemenceau, detto il Tigre per la sua intransigenza ma malato alla vescica, infierì sul collega Vittorio Emanuele Orlando che alla conferenza di Parigi si lamentava per la vittoria mutilata e esclamò: Vorrei essere capace di pisciare quanto voi siete capaci di piangere. 
Rivendicare presso gli alleati ma anche presso la nostra opinione pubblica che la vittoria dell'Italia andava riconosciuta di più è stato un modo per sottolineare un'esigenza e però ha dato la sensazione sbagliata che quella vittoria non fosse davvero una vittoria. Come a dire: siccome non abbiamo avuto dalla guerra tutto ciò che ci aspettavamo, ma solo orrori e morte, forse davvero non è stata un successo. 

Caporetto, la strada che portò al trionfo

E tuttavia le operazioni storico-politiche sono una cosa e la coscienza nazionale in questo caso è un'altra. Ossia, nel corpo della nazione, la coscienza della vittoria ha sostanzialmente resistito in maniera carsica a ogni tipo di input venuto dall'alto. E perfino alla rappresentazione anti-eroica che ne hanno dato i film di grande successo. Dove i soldati italiani per lo più hanno fatto la figura di svogliati e codardi. Perfino un capolavoro, La grande guerra di Mario Monicelli, Leone d'oro a Venezia nel 65 ex equo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, finisce per essere secondo un genio come Paolo Monelli la raccolta dei più retrivi miti anti-nazionali. 

Gli uomini che fecero l'impresa

In controtendenza, uno dei più validi storici di sinistra, Mario Isnenghi, ha avvertito a suo tempo: Non dobbiamo vergognarci di avere vinto. Il non voler riconoscere davvero un (sanguinoso) successo dell'Italia è dovuto pure al fatto che l'entrata in guerra era stata una sconfitta da parte della sinistra e dei neutralisti - di cui l'interventista democratico Antonio Gramsci diceva: hanno una «troppo comoda posizione» e sono sprofondati in una «contemplazione buddistica» - e per i loro successori ed eredi ammettere che quel conflitto era stato vinto, e andava trattato come un trionfo, rappresentava un po' un tradimento. 

Si è rifiutata la vittoria, nell'eterno 68 italiano, perché un modello di società gerarchizzata era quello che aveva superato (dolorosamente) la prova del 1915-1918. E oggi in tempi di autonomismo dire che quella fu una vittoria cioè una vittoria di tutta la nazione - e non di comunità montane o di eroismi locali secondo lo spartito delle celebrazioni leghiste degli ultimi due decenni - ha oltretutto un valore terapeutico. Se comunque una guerra proprio si deve fare, è meglio vincerla che perderla. Senza doversene poi vergognare.

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