Florence Noiville, da "tagliatrice di teste" a scrittrice: «Così la letteratura mi ha salvato dalla finanza»

Florence Noiville
di Renato Minore
7 Minuti di Lettura
Giovedì 30 Gennaio 2014, 17:04 - Ultimo aggiornamento: 3 Febbraio, 10:55
Una figlia che indaga sul passato di sua madre, morta in un incidente stradale. A partire da una lettera per caso trovata. Parola dopo parola, frase dopo frase, prende forma il racconto di un amore proibito e travolgente, che mette in ombra ogni altra cosa. Anna decide di andare a fondo: deve saperne di più, deve scoprire la verità. Solo così può capire chi sia veramente la donna. Incontra le persone che di quella segreta passione sono state testimoni. Attraverso i loro racconti non solo conosce i mille diversi punti di vista dell'uomo sull'amore. Ma per la prima volta può ascoltare la voce di sua madre, sentirla vicina a sé come mai prima, stringerla in un abbraccio che durerà per sempre.



Finalista di prestigiosi premi letterari, Florence Noiville con ”Quella sottile affinità”, il suo secondo romanzo (ora in uscita in Italia da Garzanti) ha scritto un libro sul mancato rapporto tra una figlia e una madre, su una donna che cerca di comprendere l'essenza stessa del sentimento amoroso. La Noiville approda alla letteratura dopo un singolare persorso di economista pentita, diplomata nel 1984 in una delle più prestigiose business schools francesi. Il suo addio al mondo dell’economia è stato un saggio molto discusso, pubblicato in Italia da Bollati-Boringhieri dove tra ricordi autobiografici e casi concreti, Florence ha tracciato così una panoramica demistificatoria su alcuni disastri dell'economia attuale. Con la sua lucida analisi del fallimentare rampantismo di una generazione, una critica tagliente e ironica della legge del "profitto prima di tutto". Attuamente la Noiville è giornalista e critica letteraria a ”Le Monde”. L’abbiamo intervistata a Venezia dove venerdì interverrà presso la Fondazione Cini nella giornata conclusiva del XXXI Seminario di Perfezionamento della Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri con la relazione «Un appello nella tempesta. Per una politica europea della lettura».



Lei ha lavorato nel mondo della finanza prima di diventare giornalista per "Le Monde"e poi scrittrice. Lei si è messa profondamente in gioco, raccontando il fallimento di un modello di sviluppo, attraverso la sua formazione da economista passata al giornalismo culturale e alla letteratura? In cosa la letteratura "l'ha salvata" e perché?

«La finanza è come la bicicletta. Si può andare in bici senza essere obbligati a diventare ciclisti. Dopo 4 anni nella finanza, per una società americana in cui mi veniva chiesto di massimizzare gli utili e di licenziare persone, ho trovato che ci fosse un aspetto assurdo in quello che stavo facendo. All'inizio mi sembrava quasi un gioco e oggi c'è questo gioco anche nella società, che consiste nel guadagnare sempre di più e nell'accumulare beni. Ma un giorno, nel mezzo del gioco, ci si sveglia e ci si chiede dove sia il senso di tutto ciò. Per me il senso non era abbastanza importante perché potessi dedicare la mia vita a questo. Viceversa, quello che aveva più mistero e densità, è tutto quello che riguarda l'arte e il pensiero. Per questo ho deciso di andare verso la cultura. Ho dimezzato il guadagno ma ho raddoppiato l'utile personale. Nel mondo della finanza si parla sempre di utile e io ho trovato l'utile personale che è senza dubbio una forma di ricchezza. Questa storia la racconto nel libro: ho studiato economia e me ne pento».



Lei è una scrittrice-giornalista o una giornalista-scrittrice? Si incomincia a fare del giornalismo ma in realtà si vuole scrivere altro, oppure si fa del giornalismo come forma di servizio di informazione anche quando si scrive in letteratura?

«Nel mio caso, dato che venivo dal mondo della finanza, ero molto lontano dalla letteratura e mi è parso che la critica letteraria fosse una fase intermedia, una fase che mi avrebbe avvicinato al mondo della scrittura. Ma se si guarda bene la storia della letteratura, ci si rende conto che molti scrittori sono stati anche giornalisti. Ed è possibile che la pratica della scrittura in quanto giornalista abbia influenzato la mia scrittura, in particolare nella forma breve e nella volontà di avere una storia che progredisce rapidamente».



A proposito: lei dirige il settore della narrativa straniera per Le Monde des Livres, il supplemento letterario di Le Monde. Nessun conflitto di interesse con la sua attività di scrittrice?

«No. Nessun conflitto. Perché' non scrivo su libri del mio editore. Il conflitto potrebbe esserci nella mia testa ma i due emisferi sono distinti c'è quello del giornalismo e quello della letteratura».



Prima di esordire come scrittrice, ha pubblicato una biografia di Isaac Singer: da dove viene l'interesse per questo scrittore? Forse proprio perché amante delle parole, perché lo yiddish è una lingua scomparsa?

«Si tratta di un grandissimo scrittore che è stato dimenticato a torto e che avevo voglia di fare rivivere. Mi interessava come si può parlare yiddish, una lingua moribonda, arrivare a New York con 20 dollari in tasca, sapere due parole in inglese e nonostante ciò, ricevere il premio Nobel per la letteratura? Singer mi ha fatto scoprire cose affascinanti della cultura ebraica che parlano a noi che siamo in Italia a Stoccolma ma anche a Tokyo. Più una storia è unica, più è universale. E quello che cerco di fare nei miei romanzi è partire da un'esperienza personale ed estenderla in modo tale che tocchi tutti».



Nei due romanzi che ha pubblicato, "La donazione" e "Quella sottile affinità", in forme diverse, torna il rapporto tra una figlia e una madre. C'è parallelo tra la sua vita e le cose che accadono nei suoi libri? Ha bisogno dell'esperienza come punto di partenza per scrivere?

«E' un po' quello che dicevo prima. Parto sempre da un punto personale perché' penso che si scriva bene su ciò che si conosce ma ne approfitto per renderlo universale. Ne La donazione si parla della bipolarità che colpisce molte persone, in Quella sottile affinità si parla di amore, anche questo universale. E nel romanzo su cui sto lavorando ora non si parlerà di madre e figlia ma di un'altra malattia psichica. Nei tre casi ciò che mi colpisce è che quando parlo dei miei libri nei festival letteratura qui in Italia o in Bangladesh, come il mese scorso, la gente reagisce dicendo che racconto la storia di mia madre ma anche quella di mia zia, di mia sorella etc… e questo vuol dire che il romanzo è riuscito».



Come l'altro anche questo è romanzo è denso di citazioni. La lettura e la cultura hanno un posto speciale nella sua vita.

«La cultura è il sale della vita e anche lo zucchero».



Quando si termina di leggere il suo libro si resta incerti su 'quale' libro abbiamo letto. È la storia di un rapporto madre e figlia? E' la storia di un amore difficile, che resiste?

«Entrambe le cose. E anche una riflessione sulla scrittura. In che modo lo scrittore può dire la verità su una relazione e questa verità esiste».



Amore è parola sempre "a rischio" di conoscenza e di definizione. E' d'accordo con la Dickinson: che non sappiamo nulla sull'amore, è tutto quello che sappiamo sull'amore?

«La Dickinson ha ragione ed è per questo che la mia narratrice procede con un'indagine giornalistica partendo dall'idea che non sa nulla e che scoprirà qualcosa. Se scoprisse davvero la definizione dell'amore, il romanzo sarebbe un fallimento. Ma questo non mi impedisce di introdurre nel romanzo delle conoscenze scientifiche (anna è medico) e conosce bene la neurobiologia) questa dimensione scientifica fa si che ai miei occhi il romanzo sia una storia d'amore moderna e non del diciannovesimo secolo».



Per chi ha scritto questo libro? C'è un lettore ideale e quanto ha coinciso con quello reale, con quelle decine di migliaia che vi si sono accostati? Quali sentimenti sente di aver acceso in essi, o vorrebbe suscitare?

«Quello che vorrei suscitare è che il lettore mi dica quello che provavo io senza riuscire ad esprimerlo».



Che tipo di conoscenza è quella che si ricava dal lavoro di scrittura? Qual è il potere della scrittura?

«Parlare del potere della mia scrittura da parte mia sarebbe troppo pretenzioso ma posso parlare del potere della letteratura o della cultura in genere. Ed è quello che nel mio libro ha consentito a Marie di uscire dalla sua profonda melancolia e attraverso il professore, trovare una sorta di gioia. Ed è anche ciò che mi ha permesso di uscire dalla melancolia dei numeri della finanza per andare verso il piacere stimolante dei libri, dei quadri, della musica...».



Cosa ne pensa delle trasformazioni che sta avendo il libro a causa delle sua dimensione digitale?

«Non mi preoccupa tanto il digitale in sé. Leggere il Leopardi sulla carta o sullo schermo è lo stesso. Quello che mi preoccupa di più è il fatto che la gente continui a leggerlo. Per questo alla Scuola per Librai lancerò un appello perché' si crei una scuola per lettori. Perché' sono convinta, ancora una volta, che la letteratura ci permette di accedere a un'altra dimensione di noi stessi ma anche di diventare migliori cittadini».



Bisogna ”formare” i lettori?

«Una cosa è certa: chi non è un lettore oggi probabilmente non lo sarà domani (il contrario non è vero). C'è l'urgenza di formare dei lettori. Di attuare politiche pubbliche della lettura innovative e volontaristiche, sia a livello nazionale sia a livello europeo. Non soltanto perché si vendano più libri ma perché il libro, oggetto di cultura, è anche un formidabile strumento poco costoso d'integrazione, di legame sociale, di comprensione dell'altro e di democrazia in un momento in cui l'Europa ne ha bisogno. "Vivere senza lettura è pericoloso. Occorre accontentarsi della vita. Può portare a correre dei rischi", dice Michel Houellebecq. E ha ragione.Denaro pubblico ce n'è. Lo vedo in Francia. Semplicemente gli aiuti sono male orientati. Si continua a credere che occorre sostenere l'offerta, gli autori, i traduttori, gli editori. L'offerta esiste ed è globalmente di qualità. Quella che si sta rarefacendo pericolosamente è la domanda, la voglia di accostarsi ai libri, l'appetito di pensare e di pensare con la propria testa. Uniamoci dunque - noi librai, editori, scrittori, intellettuali, giornalisti, insegnanti, sociologi dei diversi paesi d'Europa - per lanciare questo appello. La Scuola per librai che ha sempre una visione di lungo termine è il luogo giusto. Nel momento in cui si apre la 31a edizione e in mezzo alla tormenta economica, sogniamo di una Scuola per lettori, un luogo - reale e/o virtuale - che formerebbe dei lettori per l'Europea di domani. In piena tempesta è un capo che possiamo doppiare».
© RIPRODUZIONE RISERVATA