"Oltre la rottamazione", Matteo Renzi si confessa: «Berlusconi mi disse: a palazzo Chigi non vogliamo te»

Matteo Renzi
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Domenica 19 Maggio 2013, 11:21
S’intitola Oltre la rottamazione il nuovo libro di Matteo Renzi. Esce marted per Mondadori, nella collana Strade blu. Racconta la nuova sfida che il sindaco propone per il Pd e per l’Italia. Oggi la presentazione del volume al Salone del libro di Torino.





Le ore in cui il presidente Napolitano sceglie Enrico Letta come premier sono per me una vera e propria esperienza sulle montagne russe. Le consultazioni si tengono martedì 23 aprile. E la sera prima ricevo – abbastanza a sorpresa – l’invito di considerare la mia candidatura per guidare il governo. Improvvisamente sono costretto a pormi il problema di cosa fare se per caso il presidente mi chiamasse. L’ipotesi che consideravo impossibile, infatti, prende corpo nelle telefonate più stravaganti. Dai miei avversari interni nel Pd, che sono i «giovani turchi», ai sindaci delle città più importanti, da leader esperti come Veltroni e Casini, da sinistra a destra ricevo molti incoraggiamenti a mettermi in gioco. I miei amici sono ovviamente terrorizzati: «Matteo, questo è un trappolone. Cercano di fregarci». La stampa rilancia con insistenza, io sono preoccupato e, come sempre, divertito. Mai prendersi sul serio, mi ripeto. Il mantra è una frase di Chesterton, uno dei miei autori preferiti: «Gli angeli possono volare solo perché non si prendono troppo sul serio».



In ballo pare esserci una terna: Amato, Letta, Renzi. La partita è in mano ai professionisti e un democristiano di lungo corso come Dario Franceschini, che ormai ribattezzo Arnaldo o Mariano negli sms, costituisce un punto di riferimento. Mi sembra assurdo non parlare vis-à-vis con Enrico Letta: in questo caso siamo considerati in competizione, ma siamo innanzitutto amici. Fissiamo di vederci a quattrocchi in un ufficio, luogo tabù per i media, e riusciamo a prendere al volo qualcosa da mangiare. Continuo a non capire perché a Roma, solo a Roma, la schiacciatina con il prosciutto crudo si chiami pizza. Ma quella che prendiamo insieme a una Coca e una birra è molto buona. Ci parliamo, guardandoci in faccia: chiunque sarà il candidato avrà il totale appoggio dell’altro. Basta con il derby dei personalismi per cui siamo tutti amici e poi basta girare per trovarsi una coltellata alle spalle. Anche questo è frutto della rottamazione: si può collaborare, a viso aperto. Anziché farsi la guerra di soppiatto.



Letta lascia l’ufficio e io cerco di capire che sta succedendo nel centrodestra. La palla ce l’hanno loro. Inizia a circolare la notizia di un veto del Pdl su di me. Alcuni dirigenti di centrodestra, che avevano pubblicamente dichiarato il consenso sul mio nome, fanno una mezza marcia indietro. Alla fine mi risolvo a chiamare al telefono Angelino Alfano. Lui è molto sincero e io lo apprezzo molto quando mi spiega che loro hanno altre preferenze. Lo ringrazio e mentre stiamo terminando la conversazione, cambia tono. Ehi, Matteo, è appena entrato Berlusconi: te lo passo, così ci parli direttamente. Avevo visto Berlusconi qualche giorno prima, per una cerimonia pubblica, e mi aveva lungamente illustrato le strategie per la panchina del Milan. Dall’altro lato della cornetta la voce è cordiale. «Non c’è un veto nostro, caro sindaco. Semplicemente non vogliamo te, preferiamo Amato e Letta». C’è un problema di vocali, insomma: volevo prendere il voto dei delusi di Berlusconi, arrivo a prendere il veto. È un’apofonia vocalica che non costituisce per me motivo di delusione, ma di divertita soddisfazione. Penso a quanto sono stato mediaticamente insultato nel mio partito per essere la «spia» di Berlusconi. E adesso si scopre che non sono propriamente nel cuore del Cavaliere. Anzi, se c’è un nome che preferisce evitare, quello è il mio. Dormo molto sereno, sapendo di essere fuori dalla partita. Al mattino mi svegliano i messaggini: mentre i giornali danno per certo Amato, so che il Colle ha scelto Letta. Quando Enrico mi scrive, il suo sms è irriferibile: scopro che nei momenti di solenne intensità istituzionale il nuovo primo ministro usa lo slang pisano.



Il premier incaricato sale al Colle mentre io saldo il conto in albergo e torno a Palazzo Vecchio. Cosa mi rimane di queste settimane così intense? Mi rimane la politica. Che è dignità, sudore, coraggio. Mi rimane, soprattutto, il sapore del vento in faccia. Quell’esperienza che può capire soltanto chi ama rischiare, chi non vive rassegnato e rannicchiato alle spalle dei potenti. E mi rimane il gusto della sfida. Oggi è possibile andare oltre la rottamazione. E forse è necessario. Perché, finalmente, l’Italia torni a fare l’Italia.



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