Caravaggio, il San Giovannino riscoperto. Zeri l'aveva identificato nel 1951

Il San Giovannino di Caravaggio riscoperto
di Fabio Isman
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Mercoledì 9 Gennaio 2013, 12:57 - Ultimo aggiornamento: 10 Gennaio, 10:24

ROMA - Assegnato a Caravaggio, poco visto in Italia (e mai da 60 anni), con una singolare storia alle spalle: riemerge da tempi abbastanza remoti un San Giovannino di Caravaggio che offre da mangiare a una pecorella, e, diciamolo subito, non pu essere una copia. largo 112 cm e alto 78; la postura del Battista ricorda i dettagli di due dipinti: il soggetto analogo della Galleria Corsini a Roma, e l’Incoronazione di spine di Vienna; magari, pure il San Gerolamo che scrive di Malta. Gli esami scientifici mostrano che le peculiarit corrispondono a quelle tipiche di Merisi. Ha gi convinto tanti esperti del pittore: da Claudio Strinati a Maurizio Calvesi, Carlo Giantomassi (grande restauratore), fino a Rossella Vodret, che l’ha vincolato come opera autografa a maggio, e voluto per una mostra da poco conclusa nel Sud America. Il Caravaggio ritrovato ha persuaso pure Clovis Witfield, Sergio Guarino (nel 2011, ha rinvenuto documenti rivelatori) e Sebastian Schtze, tre altri noti esperti.

IL BLOCCO

La sua storia è quanto mai curiosa. La racconta Fabrizio Russo, negozio in via Alibert, a Roma: «Anche mio nonno Franco era un antiquario. Nel 1951, presenta il dipinto all’Ufficio esportazioni: voleva venderlo a un’asta a New York, come Caravaggesco». Ma a Christie’s il San Giovannino non arriva: bloccato dalla commissione; lo Stato esercita il diritto di prelazione. Lo decidono tre esperti: Giorgio Castelfranco, storico dell’arte, collaboratore di Rodolfo Siviero nel recupero delle opere portate via dai nazisti e già direttore di Palazzo Pitti; Corrado Maltese, allievo di Pietro Toesca e docente universitario, autore di una Storia dell’Arte in Italia 1785-1943 edita da Einaudi e pochi anni prima, segretario di Ranuccio Bianchi Bandinelli, un grande direttore generale delle Belle Arti; e Federico Zeri, allora trentenne.

Cinque mesi prima, si era aperta a Milano, curata da Roberto Longhi, la famosa mostra caravaggesca. Affermano i tre: «Opera di alto pregio da attribuirsi a Michelangelo da Caravaggio, nella sua piena maturità», «è una strettissima congiuntura caravaggesca, fra i più importanti acquisti delle Gallerie nazionali nell’ultimo decennio». Lo Stato paga il basso valore dichiarato del dipinto (30 mila lire), e, fino al 1958, lo espone a Palazzo Barberini, non ancora restaurato, acquisito nel 1949 per diventare Galleria d’Arte antica.

Ne nasce una «querelle» giudiziaria: Franco Russo contesta la prelazione. «Rivendica la sua buona fede: non avrebbe mai pensato di esportare la tela, se l’avesse ritenuta di Caravaggio», spiega Maurizio Lupoi, figlio del legale che ne curò gli interessi; «ma ci vollero tre gradi di giudizio». Nel 1958, il quadro torna a Franco Russo. Il quale se ne va improvvisamente due anni dopo: «Nonno non ha potuto nemmeno raccontarci qualcosa di quel dipinto», dice Fabrizio. Il negozio di via del Babuino è venduto, la tela resta in casa. La genealogia continua: prima, due fratelli di Franco, Ettore e Antonio, aprono gallerie nel centro di Roma; poi, il figlio una a via Capo le Case: «Ma aveva tre lauree, e si occupava semmai di centrali nucleari». Finché pubblicizza il dipinto, ormai non più della famiglia, come della Cerchia di Caravaggio: nella mostra per i «Cent’anni di una tradizione», iniziata dal suocero, Pasquale Addeo.

LE INDAGINI

«E’ il 1998; e dopo quella celebrazione, cominciamo gli accertamenti». Nel 2010, Bruno Arciprete lo pulisce a Napoli. Sergio Guarino ritrova una tela di dimensioni e soggetto analoghi nella raccolta del cardinale Pio: ceduta nel 1777, come Caravaggio, a Gavin Hamilton, un mercante famoso; e ce n’è menzione tra i beni d’un altro cardinale, Giacomo Filippo Nini, nel 1681: «S. Gio. Battista, tela grande, che colla destra porge l’herba all’agnello vestito di pelliccia e manto rosso mano del Caravaggio». Lo esamina l’ingegner Claudio Falcucci, della Sapienza, che dice: «Ho indagato circa 30 opere di Merisi; ho studiato tre volte questo quadro, l’ultima nel 2011. Non c’è un disegno, ed è abbastanza solito in Caravaggio; ci sono invece quelle incisioni nella tela abituali per lui. Vari pentimenti e correzioni: non è una copia. Tipici i profili a risparmio: zone non dipinte in cui sfrutta la preparazione della tela. Tante le compatibilità e analogie: per come è dipinta, una gamba è analoga al quadro Corsini: anche certe incisioni li accomunano».

A concludere è Claudio Strinati: «Tra i molti che negli ultimi anni sono stati avvicinati alla mano di Caravaggio, questo è di gran lunga il più interessante e importante»; «nuova e sorprendente l’iconografia»; «un conoscitore come Zeri non avrebbe caldeggiato l’acquisto»; «il restauro ha messo in evidenza una qualità della stesura coerente con quanto ora sappiamo del metodo di lavoro di Caravaggio»; gli ricorda anche il Narciso di Palazzo Barberini (che, secondo alcuni, è però di Giovanni Antonio Galli, «lo Spadarino»: ma veste come il giovane nella Buona Ventura dei Capitolini, e come la Maddalena penitente Doria Pamphili). Per lui, il dipinto è «dell’estrema fase del pittore». E’ un nuovo mistero, un nuovo (ma antico) e prezioso ritrovamento.

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