La svolta che manca/ Intreccio malato fra la politica e la giustizia

di Carlo Nordio
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Sabato 21 Novembre 2015, 10:55 - Ultimo aggiornamento: 12 Novembre, 00:11
La vicenda che coinvolge il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca esprime, ancora una volta, le due malattie mortali che affliggono il nostro Stato cosiddetto di diritto: la segretezza delle indagini giudiziarie e la contaminazione strumentale tra giustizia e politica.

Prima questione. Le notizie sull’inchiesta che rischia di travolgere la Regione Campana sono tanto frammentarie quanto ambigue. I reati addebitati ai protagonisti sarebbero la corruzione e la concussione per induzione. Non sono esattamente la stessa cosa, anzi tecnicamente sono ipotesi incompatibili.

Nel primo caso corruttore e corrotto si accordano tra loro. Nel secondo il concusso è comunque vittima di una sopraffazione altrui. E infatti il presidente De Luca, pur proclamandosi innocente ed estraneo ai fatti, si è dichiarato parte offesa. Se questo fosse vero, sorgerebbe peraltro legittima la domanda: perché non ha denunciato subito il sopruso? Ma, ripetiamo, tutto questo è dubitativo, perché i processi si fanno sugli atti, e gli atti sono segreti.



Ancor più segrete dovrebbero essere le intercettazioni delle conversazioni che, nel caso presente non figurano in alcun provvedimento formale. E invece gli uni e le altre, vere o fasulle che siano, sono già state opportunamente divulgate. E questo ci porta alla seconda questione. Che la politica, quando è incapace di risolvere i propri conflitti attraverso gli strumenti ordinari del dibattito e del confronto, si avvale delle inchieste per eliminare gli avversari. Talvolta lo fa in piena legittimità, come quando invoca le leggi vigenti che vietano l'eleggibilità o la permanenza in carica di persone condannate. Ma sempre più spesso lo fa in modo subdolo e sleale, valendosi di notizie trafugate dagli atti segreti di indagini in corso. E attraverso la micidiale combinazione (ill)logica della equivalenza tra la figura dell’indagato, del condannato e dell’indegno, mira a estromettere dalle competizioni, o dagli uffici, anche chi è raggiunto da una semplice informazione di garanzia. Atto che, come dice la parola stessa, è o dovrebbe essere a tutela di chi lo riceve.

Questa perversione etica e giuridica dimostra, nel caso di specie, tutta la sua carica distruttiva. Perché da un lato impone all’indagato dei chiarimenti immediati: come s'è detto, sarebbe singolare che un presidente non comunicasse subito alla magistratura una tentata concussione. Ma dall’altro espone la stessa persona a una preventiva aggressione mediatica, fondata su notizie ufficiose, che ne indebolisce la legittimazione politica e la stessa capacità difensiva. L'interrogatorio davanti a un procuratore è geneticamente vulnerato quando è preceduto da uno stillicido di indizi ipotetici.

Tutto questo, indipendentemente dalla vicenda di Napoli, dovrebbe farci riflettere sulla necessità di una completa revisione culturale sui rapporti tra politica e giustizia. A cominciare dalla figura dell’"indagato", che non essendo imputato nè condannato, giace in un limbo limaccioso alla mercè del primo motivato moralizzatore. E via via, fino all’ignobile diffusione pilotata delle intercettazioni, che ancora un volta ha devastato gli elementari diritti costituzionali. È una riforma tanto radicale quanto urgente, alla quale si risponde con la petulante litania che sì, qualcosa non funziona, ma non si può gettar via il bambino con l'acqua sporca. Al che è facile replicare che se il pargoletto è morto non resta che dargli pietosa sepoltura.