La filosofia del body-building: pensare sul ring della bellezza

La filosofia del body-building: pensare sul ring della bellezza
di Carmine Castoro
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Venerdì 13 Febbraio 2015, 05:44 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 16:26
A vedere uno degli ultimi servizi delle Iene dedicato da Enrico Lucci agli uomini che “si rifanno” non si può far altro che ridere.



Ma non solo. Segnale esilarante e inquietante di una società irrorata irreparabilmente da narcisismo e insicurezze profondissime, il video è tutto un profluvio di fronti stirate, acido ialuronico, labbra a canotto, botox come bocconcini di vitello, blefaroplastica a go-go e isole tricologiche per compensare gli abbozzi di “riporto” e dare l’idea di una freschezza immarcescibile finanche del cuoio capelluto.



E il punto non è che un tempo avremmo sentito parlare gli italici maschi solo di calcio e divette da copertina, mentre ora discettano dell’embrione di “gallina bretone” come panacea rinvigorente contro i segni del tempo che passa. Ma che una intera temperie storica ha deciso di abdicare all’autenticità delle scadenze esistenziali dell’uomo per emigrare verso il deserto delle apparenze e del giovanilismo in confezione spray. Una vera e propria “mutilazione simbolica” a giudicare dal saggio asciutto ed erudito “Il corpo preso con filosofia” (Editrice “il prato”, collana I Cento Talleri, pagg. 78, euro 12), opera di un interessantissimo giovane filosofo, Tommaso Ariemma, docente di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce.



Una sorta di amputazione, di mancanza, di bisogno di completezza che si riaffaccia, eterno e angoscioso – ci segnala Ariemma - e che spinge a quell’ansia di perfezionamento e integrità che ben si attaglia alla “mutazione” offerta agli organismi, agli equilibri psicofisici e ai volumi esterni da una tecnologia rivitalizzante che passa per bisturi, iniezioni, collagene. Quasi sempre indotta dai criteri dominanti dei media, del fashion system, e da un malinteso binomio fra castità alimentare e bellezza pura che precipita in patologie e disturbi, della salute e dell’identità.



Cavalcando la sottile linea di confine fra singolarità e governamentalità, decostruzione e costruzione, libertà e struttura, cara a un lunghissimo catalogo di esponenti del pensiero occidentale, Ariemma vuole soffermare la nostra attenzione sul fatto che la logica, che potremmo definire telecapitalistica, dell’estetizzazione è un classico riduzionismo del soggetto: un’anatomizzazione del “soma” secondo l’imperativo dell’attrazione e della prestanza sportiva (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.). La vita, insomma, diventa un cantiere permanente di self-sculpture, di scalpellazione totale del sé, nel senso di una mera giustapposizione di parti.



Una vera e propria dis-individuazione, dunque, cui corrisponde un forsennato “desiderio di raggiungibilità”, come dice Ariemma, della incostanza del nostro corpo, del suo dileguare, rientrando questo ormai a pieno titolo, non solo in una ramificata holding di produzione e vendita di oggetti, ma in una ancor più perniciosa metallurgia del vitale. “Fare corpo è ciò che ci sorprende dell’umano. L’uomo fa corpo con l’arte, con una manifestazione politica. Esistono diversi modi di fare un corpo. L’uomo fa corpo amando. Invece, la cultura legata alla chirurgia estetica prescrive che si faccia corpo solamente con il proprio singolo corpo, la cui figura è rimandata da specchi, foto, video”, per cui risulta inevitabile una sorta di eldorado delle pose come controfigura del sociale, all’interno del quale, dice il filosofo di origini napoletane, “si è ormai diffuso un processo di body building, meno intenso, ma sempre più ampio e che riguarda sempre più il controllo del proprio corpo insieme alla sua immagine sociale. Alla sua foto che può essere diffusa sui più diversi supporti”.



Già, le foto. E la condanna alla felicità e all’auto-viralità appagante dei social network. Ribadisce Ariemma: “In un certo senso tutte queste persone hanno scambiato Facebook per il paradiso, ovvero per quella dimensione dove abbiamo un assoluto controllo sul nostro corpo. Ma hanno confuso il corpo con le sue immagini registrate. Difficilmente controlliamo il corpo, come siamo capaci di controllare le sue foto”.



Una deriva, questa, che investe direttamente programmi televisivi di grande richiamo voyeuristico come “Chirurgia estrema” sul canale Sky Lei dove è tutto un brulicare di ordigni di gelatine che scoppiano, zigomi rifatti che strizzano le palpebre, pannicoli di lardo siringati, poveracci multi-operati devoti al dio filler e che hanno fatto del surgery una nursery, di un ambulatorio asettico l’incubatrice dove rinascono come arabe fenici.



Agonia e agonismo della bellezza come anche in “10 anni più giovane – Australia” (sempre su Lei) dove, in una puntata, Tracey e Craig, partner, “ex belli”, lei mamma da high society, lui footballer in disarmo, chiedono di tornare come erano in passato. Senza malattie, rughe, macchie della pelle e borse sotto gli occhi, magari. E sembra che si possa, anzi il format controfirma il tutto con un interrogativo da vetrina di manichini e da osceno certamen domestico: “Chi sarà più bello dell’altro?”. Per giungere alla fine dell’episodio alla morale trionfalistico-favolistica del programma: “Ora Craig è più sano, più felice, più giovane. Insieme si sono ritrovati, reinventati e danno inizio a una nuova vita”: perfetta epitome dell’associazione semantica che c’è fra il termine tedesco “verfuhren” che significa sedurre e quello, del tutto simile, “verfahren” che significa procedere, operare.



Con tocchi raffinatissimi di filosofia alla Foucault e alla Derrida, Ariemma ci ricorda che, nella spasmodica ricerca di una pseudo-armonia statuaria, la perfezione trova il suo limite nella fragilità della volontà, sempre in prima linea per combattere grasso, carenze nell’auto-disciplina, scivoloni in abitudini da eccesso di trigliceridi. Dunque, una perfetta metafora del singolo di fronte a un Tutto che, come nel regno della vita anabolizzata, è un’entità estranea che subiamo per dirci ancora noi stessi e accettarci allo specchio. Una vera Metafisica socio-attitudinale che ha dimenticato quella “rotta” della debolezza e della finitezza.



Secondo quanto dice un altro filosofo, Jean-Paul Galibert, nel suo ultimo “Suicidio e sacrificio” (Stampa Alternativa) l’ipercapitalismo ha deciso di entrare totalmente nelle nostre esistenze in nome di una redditività assoluta che, se non porta all’auto-distruzione vera l’escluso che arranca e non ce la fa, irradia di un potere immaginario, e comunque mortifero, chi per sopravvivere si adegua ai cliché di massa. Dice Galibert: “La pornografia rovina l’immagine che ci si fa della propria capacità sessuale per vendere le sue immagini. Dunque pagate e tornate a pagare per vedere il seguito. Oppure tentate disperatamente di assomigliare ai suoi eroi, comprate, camuffatevi, ricorrete alla chirurgia estetica. Comprate quanto serve per conquistarli, allungatevi il pene, gonfiatevi i seni, rendete più bianca la vostra pelle”.



L’etica delle “piccole variazioni”, è il punto di fuga di Ariemma. Quella stessa strategia dei ferri e delle suzioni che porta al “ritocchino”, deve far collassare, come in un domino gigantesco, quell’”omologazione paradossale” che fa a botte da sempre con l’assenza, la sospensione, l’inconsueto, l’incredulità verso la pazzia spacciata per “eudaimonìa”. Come su un ring, dove stavolta il secco un po’ floscetto batte la superstar del wrestling dai bicipiti d’acciaio.