Iraq, chi sono i peshmerga, i guerriglieri che l'Italia vuole aiutare

Combattenti peshmerga
di Giulia Aubry
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Mercoledì 20 Agosto 2014, 13:05 - Ultimo aggiornamento: 13:34
Sono l’esercito di uno Stato che non esiste, il Kurdistan. Il loro nome, nella traduzione letterale pi accreditata, significa “colui che si trova di fronte alla morte” (pesh: prima, merga: morte).



A seconda della sfumatura scelta, c’è chi lo traduce con “guerrigliero che sfida la morte” oppure “guerrigliero che combatte fino al raggiungimento di essa”. Con il tempo il termine è diventato sinonimo di combattente curdo, ma il significato profondo, che implica sacrificio e una dedizione pressoché totale alla causa nazionalista, è rimasto intatto.



I peshmerga, che il mondo sembra aver scoperto solo in questi giorni, esistono da oltre un secolo, anche se il loro nome in questa connotazione si è definito con l’avvento, negli anni ’20 del secolo scorso, del Movimento indipendentista curdo e ha assunto una valenza ufficiale solo alla fine degli anni ’40 con l’auto proclamazione della Repubblica di Mahabad, uno stato curdo la cui esistenza durò solo 11 mesi e che non venne mai riconosciuto a livello internazionale.



Un esercito senza confini da difendere che utilizza tecniche di guerriglia e si batte, da sempre, per la propria terra. Terra che normalmente viene identificata con il Nord dell’Iraq, ma che in realtà comprende una zona più ampia del settore settentrionale e nord orientale dell’antica Mesopotamia e che include, pertanto, territori turchi, iraniani, iracheni, siriani e armeni. Orgogliosi della loro appartenenza, questi guerriglieri sono conosciuti per le loro grandi capacità nel combattimento, e c’è chi fa risalire alla discendenza curda anche il “feroce” Saladino, la cui abilità in battaglia gli fece guadagnare il titolo di “principe dei Cavalieri” e il rispetto degli Europei.



Ma c’è anche un'altra particolarità che caratterizza i combattenti peshmerga. Quella di avere al loro interno, sin dall’inizio della loro storia, una nutrita componente femminile attivamente impegnata in prima linea. Tra i peshmerga che oggi fronteggiano le forze di ISIS, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, è infatti presente un intero reggimento femminile, composto da quattro battaglioni, comandato da un colonnello donna e di cui fanno parte oltre 500 tra soldatesse, sottoufficiali e ufficiali.



Secondo quanto dichiarato dalla Tenente Colonnello Lamiah Mohammed Qadir, una delle comandanti del reggimento, ad AlMonitor, sito di informazione sul Medio Oriente, le donne peshmerga sarebbero al momento impegnate in prima linea nelle città di Kirkuk, Daquq, Jalawla e Khanaqin. Per molte di loro non si tratta della prima volta e, probabilmente, non sarà neanche l’ultima.



La loro esperienza militare si è infatti consolidata nel corso delle battaglie che hanno portato i peshmerga a schierarsi al fianco delle forze statunitensi per il rovesciamento del regime di Saddam Hussein nel 2003. Molte di loro, tutte volontarie, sono impegnate nelle attività militari sin dalla costituzione del leggendario 2° battaglione femminile, nel 1996, e la stessa Lamiah ha combattuto per quella che considera la liberazione dell’Iraq nel 2003 e contro il gruppo di “insorgenti” anti-americani di Ansar al-Sunna nel 2002.



Una veterana del battaglione, in un’intervista rilasciata al New York Post nei giorni scorsi, ha dichiarato di essere onorata “di far parte di un paese islamico moderno che permette alle donne di difendere la patria”. Ma la presenza femminile tra i peshmerga si connota, paradossalmente, proprio come una forma di rispetto delle tradizioni del popolo curdo. Già alla fine del 1700, infatti, sotto gli Zand, una delle famiglie curde che si opposero al controllo Ottomano, le donne combattevano accanto ai loro mariti.



Con alterne fortune, tra spinte modernizzatrici e la necessità di conformarsi ai valori delle popolazioni tra le quali i curdi si sono trovati a vivere, questa tradizione ha resistito fino al 21° secolo, fino a quella battaglia che ora vede le donne curde difendere non solo la loro terra ma anche quei diritti, conquistati e mantenuti con fatica, che lo Stato Islamico vorrebbe, nella migliore delle ipotesi, disconoscere loro.