Così Invictus Mandela costruì con Desmond Tutu il Sud Africa arcobaleno con una partita di rugby. Dal boero Pienaar al nero Kolisi

Desmond Tutu, Nelson Mandela e Frederik De Klerk
di Paolo Ricci Bitti
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Mercoledì 24 Giugno 2020, 13:13 - Ultimo aggiornamento: 25 Ottobre, 08:17

Un Paese meraviglioso, il Sud Africa, tanto quanto straziato dalle vicende della Storia. Un Paese che a metà degli anni Novanta fa si trovò al bivio tra una sanguinosa rivoluzione e una gloriosa ricostruzione.


Tre i premi nobel per la Pace che hanno fatto imboccare la strada giusta: due neri, Nelson Mandela e Desmond Tutu, e un bianco, Frederik De Klerk. Il primo è morto nel 2013, il secondo e il terzo nel 2021 a distanza di un mese.

Desmond Tutu ha lasciato al mondo l'esperimento unico e purtroppo mai replicato in pieno della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Trc), creata nel 1995 davanti alla quale gli aguzzini (non tutti, ma molti) del regime dell'apartheid hanno chiesto perdono per i crimini commessi da almeno tre generazioni di bianchi boeri o anglosassoni.

Hanno chiesto perdono e l'hanno ottenuto davanti a tutta la nazione: 5 milioni di bianchi e di neri e coloured. E hanno chiesto perdono anche i neri che si era vendicati seguendo la legge del taglione. Verità senza vendetta. Forse la più grande battaglia per la civiltà mai combattuta senza spargere una goccia di sangue. E Tutu è finito sulla copertina del libro Terra del mio sangue di Antjie Krog che dovrebbero leggere tutti, a cominciare da chi regge le sorti delle nazioni e dei suoi tribunali.

Tutu amava anche il calzini rosso porpora come l'abito talare dei cardinali - qual era lui - e il gioco del rugby che negli anni era diventato il simbolo dei potere dei bianchi. Come Madiba Mandela capì che quello sport poteva essere invece il mezzo per riconciliare una nazione straziata dalle ingiustizie e appoggiò il presidente in quella campagna, osteggiata persino dall'Anc, che portò alla vittoria della coppa del mondo del 1995. 

Tutu quel 24 giugno si trovava però negli Stati Uniti dove non era facile trovare un televisore sintonizzato su quell'evento: lo trovò infine in un bar dove il cardinale si accomodò insieme agli altri clienti ignari di che cosa c'era dietro a quel match fra Sud Africa e l'imbattibile Nuova Zelanda di Jonah Lomu. 

"Sono stati gli angeli a portare così in alto il pallone in mezzo ai pali", disse poi Tutu per raccontare il drop (calcio di rimbalzo) di Joel Stransky che n ei tempi supplementari portò l'imprevista e impossibile vittoria agli Springboks, da quel giorno simbolo della nazione Arcobaleno e non solo della minoranza bianca. 

Da allora la Storia del Sud Africa resta legata a due partite di rugby, finali delle coppe del mondo 1995 e 2019.
E poi. 
Una poesia struggente, Invictus e un film dallo stesso titolo, subito un cult, grazie a star quali Clint Eastwood,

Morgan Freeman e Matt Damon.

Un jumbo jet passato rombando e rimbombando a tutta manetta appena sopra i capelli di 48mila spettatori che hanno rischiato l’infarto temendo un terremoto.

Una canzone - Shosholoza - diventata inno ufficioso da intonare subito dopo quello ufficiale N'kosi Sikelel' iAfrika che prevede tre strofe cantate in cinque lingue: tre native (Xhosa, quella di Mandela, Zulu, e Sesotho, quella degli ex sfruttatori boeri, l'Afrikaaner, e quella dei dominatori coloniali, l'Imglese.

E infine la conferma, nello spazio di una sola generazione, che il più grande statista di sempre, Nelson Mandela aveva avuto ragione nel mettersi contro la sua stessa popolazione.

La storia delle storie dello sport intrecciato alla politica comincia 25 anni fa, il 24 giugno, quando allo stadio Ellis Park di Johannesburg, il Sud Africa appena uscito dalla barbarie dell'apartheid trionfa ai supplementari 15-12 sugli arcifavoriti All Blacks dell’inarrestabile e compianto Jonah Lomu. Se avete visto il film Invictus, capite subito. Anche meglio se avete letto o leggerete “Ama il tuo nemico” di John Carlin e soprattutto “One team, one country” di Edward Griffiths. Se avete avuto il privilegio di esserci, lì a pochi passi da Madiba e da Lomu, non dimenticherete mai l’emozione di vedere la Storia crearsi davanti a vostri occhi.

A un quarto di secolo da quell’incipit, maestoso come quello della poesia Invictus di William Ernest Henley, va detto che il Sud Africa di oggi non è ancora, anzi, è ancora molto lontano dalla Rainbow Nation (copyright Tutu) che Mandela ha iniziato a costruire proprio con quella partita di rugby. Ma senza la sua folle intuizione di unire bianchi e neri in nome del rugby, il Sud Africa sarebbe arretrato allo conidizioni di tante nazioni africane che non si sono mai riprese dal giogo del colonialismo.

Un miracolo non ancora del tutto compiuto anche se l’anno scorso ai Mondiali in Giappone ne abbiamo visto un bel pezzo: dal presidente nero Mandela che consegna la coppa del mondo al capitano boero Pienaar del 1995, leader di una squadra con un solo coloured nel gruppo, al presidente nero Ramaposa, delfino di Madiba, che consegna la stessa coppa al capitano Kolisi, capitano di una corazzata con quasi la metà fra neri e coloured. Tutto ciò pareva incredibile, ma è accaduto, grazie a Mandela, nello spazio brevissimo di una generazione che ha lavato, almeno in parte, la vergogna di secoli di dominazione e sfruttamento.


Ecco i capitoli di questa storia ripercorsi dagli articoli pubblicati dal Messaggero.

Così 25 anni fa Mandela cambiò la Storia con il rugby: il racconto della finale dei Mondiali in Sud Africa

L'intervista
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La maglia
Balie Swart, in campo all'Ellis Park 25 anni fa, ha raccontato che Nelson Mandela, «45 minuti prima dell'inizio della finale arrivò nei nostri spogliatoi e da una busta di plastica tirò fuori una replica della nostra maglia n.6, quella del nostro capitano Francois Pienaar e, con un'umiltà degna del grandissimo uomo che era, gli chiese se poteva indossarla. Fu un gesto che ci colpì, ci guardammo l'uno con l'altro, meravigliandoci che un Capo di Stato ci chiedesse l'autorizzazione, e Francois fu contentissimo di quella richiesta». Così Mandela andò a sedersi in tribuna d'onore e a fine partita, sempre con quella maglia, scese in campo e consegnò a Pienaar la Coppa del Mondo che il Sudafrica aveva appena vinto. «E io non dimenticherò mai quei momenti - racconta Swart - e poi quando il nostro pullman ci ha riportato in albergo e ho visto gente di tutte le razze correrci dietro. Fu incredibile vedere cosa avesse significato la nostra vittoria per il Sudafrica e la sua gente».

Paolo Ricci Bitti

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