Virus, il primario di rianimazione a Codogno: «Il nostro modello esportato negli Usa e in Inghilterra»

Virus, il primario di rianimazione a Codogno: «Il nostro modello esportato negli Usa e in Inghilterra»
di Claudia Guasco
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Venerdì 5 Giugno 2020, 08:22 - Ultimo aggiornamento: 08:24

Primo giorno di riapertura e arriva subito il test sul campo. Un sospetto positivo e un’anziana malata di Covid. Momenti di tensione? «Ma no, dopo quello che è successo abbiamo adottato un meccanismo di reazione che per noi medici e infermieri è diventata una costante: fino a prova contraria, tutti i pazienti sono potenzialmente affetti dal virus. E quindi ragioniamo di conseguenza». Il dottor Enrico Storti, responsabile dell’unita di anestesia e rianimazione di Lodi e Codogno, è reduce dai tre mesi che non esita a definire «i più duri della mia vita». Ora, afferma, il pronto soccorso «riapre in maniera completamente diversa da come lo avevamo lasciato».

Senza contatti tra malati.
«È stato organizzato un triage medico diverso da quello solo infermieristico. Il paziente viene subito intercettato, misurata la temperatura, eseguita l’anamnesi e l’ecografia polmonare. Sulla base dei referti viene fatto il tampone e indirizzata la traiettoria: positivo o negativo. È un pronto soccorso nuovo per logistica e funzionalità, raccoglie l’esperienza che ahinoi ci siamo fatti».

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Teme una seconda ondata?
«Fortunatamente non faccio il virologo, in ogni caso il nostro ospedale è attrezzato. Anche perché è chiaro che non tornerà tutto come prima. Siamo pronti ad affrontare eventuali nuovi contagi sulla scorta dell’esperienza: nella nostra terapia intensiva dal 21 febbraio a metà maggio abbiamo avuto più di 100 pazienti, tutti Covid».

Cosa vi ha lasciato tutto questo?

«Errori ne sono stati commessi, nessuno purtroppo può pensare di aver fatto tutto alla perfezione. Ma ci siamo confrontati con la prima pandemia dell’area occidentale da cent’anni, dai tempi della Spagnola. Abbiamo avuto la rapidità e la lungimiranza di capire subito che eravamo di fronte a uno scenario non convenzionale e lo abbiamo affrontato con mezzi straordinari. Abbiamo quadruplicato i letti in terapia intensiva, superato la differenziazione tra internista, pneumologo, rianimatore creando aree omogenee per intensità di cura, nelle quali hanno operato medici di varie specializzazioni. Questo ci ha permesso di ottimizzare le risorse e lavorare in modo più efficace ed efficiente».

Un bagaglio che avere condiviso.

«Abbiamo messo tutto subito in rete, ottenendo un grande riscontro. Ci muoveva la certezza che la nostra esperienza potesse far guadagnare tempo ad altri e infatti ci hanno chiamato dagli Usa, dall’Inghilterra, dalla Spagna, ci siamo confrontati anche con i colleghi di Wuhan».

Avete mai temuto di non farcela?
«Spesso, purtroppo. Faccio questo lavoro da trent’anni, prima ero al Niguarda di Milano, ho visto il reparto di cure per ustionati, l’unità iperbarica e quella per i trapianti. Ma qui eravamo in uno scenario di guerra, da cooperazione internazionale. E non è stato facile nemmeno dal punto di vista emotivo e per le ricadute personali, dovevamo difendere le nostre famiglie dal contagio».

 

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