Così si è riacceso il dibattito su Santa Sofia: basilica cristiana per quasi un millennio e poi moschea nel 1453, fu trasformata in museo da Mustafa Kemal Ataturk nel 1935, un decennio dopo aver abolito il Califfato ottomano, proprio per sottrarla agli opposti estremismi.
Ma Erdogan la pensa in un altro modo e già lo scorso anno, alla vigilia delle amministrative del 31 marzo, in cui subì poi una pesante sconfitta, aveva promesso di cambiarne lo «status», tornando a chiamarla ufficialmente «moschea». Nel 2016, ad esempio, aveva fatto tornare il canto del muezzin in una notte di fine Ramadan dai minareti aggiunti alla struttura originaria della basilica. Forzature che hanno sempre suscitato dure reazioni a livello internazionale, in particolare dalla Grecia, che vede in Santa Sofia un simbolo del cristianesimo ortodosso. Questa nuova disfida giunge in un momento particolarmente delicato per le relazioni bilaterali con Atene, specie per il braccio di ferro sulle perforazioni alla cerca di idrocarburi nel Mediterraneo orientale al largo di Cipro. Una partita su cui ancora Cavusoglu ha avvisato «Paesi come Grecia, Israele ed Egitto» che «qualsiasi accordo che non includa la Turchia è destinato a fallire».
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