Da Jesse Owens ad oggi, quando lo sport diventa portavoce della protesta

Da Jesse Owens ad oggi, quando lo sport diventa portavoce della protesta
di Roberto Avantaggiato
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Martedì 2 Giugno 2020, 19:00 - Ultimo aggiornamento: 19:34
Bravi, ricchi e famosi. Portatori di grandi gioie, profonde delusioni ma anche latori (volontari o no) di importanti messaggi. Gli atleti di ogni sport hanno un forte impatto mediatico, e soprattutto sociale, del quale spesso neanche se ne rendono conto. Calcio, atletica, pugilato, golf, basket: nessuno viene escluso dall'essere coinvolto nelle lotte sociali, in un percorso che affonda le sue radici nella notte dei tempi.

Sono soprattuttri i gesti-simbolo ad essere diventati un promemoria di come lo sport può lanciare messaggi forti e incisiv, che facciano subito presa sulla gente, sensibilizzandola. Da Jesse Owens che ha vinto quattro medaglie d'oro ai Giochi olimpici di Berlinonel 1936, atleta nero che osò sfidare il razzismo, fino alle foto di oggi che ritraggono calciatori inginocchiati per chiedere giustizia per l'assassinio di George Floyd, la linea senza tempo testimonia una battaglia che, purtroppo, è lontana dall'essere vinta, quella contro il razzismo. 

Sono soprattutto gli atleti americani ad aver usato e ad usare ancora lo sport per rompere omertà e silenzi. Da Cassius Clay, che grazie al suo carisma riuscì a dare voce prima al separatismo nero e poi all'antirazzismo, ai due velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, ​primo e terzo nei 200 metri alle Olimpiadi del 1968 a Città del Messico. Entrambi, al momento della premiazione, protestano sollevando un pugno con guanti neri durante l'inno nazionale degli Stati Uniti.

In tempi più recenti, i Miami Heat di basket si fecero fotografare con indosso felpe con il cappuccio sollevato e la testa chinata, come segnale di denuncia per la morte di Trayvon Martin, diciassettenne americano assassinato solo perché considerato una minaccia per la felpa indossata con il cappuccio sollevato. La foto dei Miami Heat venne condivisa anche da LeBron James. Che nel 2014, dopo un fatto analogo a quello di Floyd, nel riscaldamento prepartita indossò una maglietta con la scritta I can't breathe (non riesco a respirare) dopo la morte di Eric Garner, ucciso anche luyi da un poliziotto.

Contro l'America razzista si è poi schierato anche il quarterback dei San Francisco Colin Kaepernick, che insieme a due compagni di squadra, Eli Harold ed Eric Reid, si è inginocchiato durante l'inno nazionale degli Stati Uniti, suonato prima di un match di fottoball americano. Kaepernick spiegò il gesto con la voglia di sensibilizzare il Paese sulla brutalità della polizia razzista. 

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Inginocchiamento che in questi giorni è diventato il simbolo della protesta contro l'uccisione di George Floyd, portata avanti in Bundesliga da Thuram junior e altri calciatori (che ora rischiano una squalifica) in Italia (con la Roma che proprio oggi ha postato la foto della rosa schierata in ginocchio a Trigoria) e in Premier, con Liverpool, Chelsea e Newcastle che postano foto della squadra inginocchiata nel cerchuo di centrocampo o a formare un'acca, qualla di humanits, ovvero l'umanità che l'America (e non solo) chiede alla polizia.
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