Di Bartolomei, ventisei anni da quel suicidio che ha gelato Roma. Il ricordo dell'eroe di ieri e della leggenda di oggi

Di Bartolomei, ventisei anni da quel suicidio che ha gelato Roma. Il ricordo dell'eroe di ieri e della leggenda di oggi
di Alessandro Angeloni
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Sabato 30 Maggio 2020, 15:20 - Ultimo aggiornamento: 15:24
Sono giorni di ricorrenze romaniste, l’addio di Totti (28 maggio), quello di De Rossi (il 26), poi ce n’è una che nessuno dimentica: la morte di Agostino Di Bartolomeni, scomparso il 30 maggio di ventisei anni fa. Un ragazzo romano, entrato nei cuori della gente senza sbraitare, senza gesti estremi, tranne uno, nel finale. Una scomparsa poco comune, per un personaggio che di comune non aveva proprio nulla. Ago era unico, da calciatore e unica è stata la sua morte., brutale, assurda, immeritata. In un modo controverso. Un omicidio alla sua vita, quello è stato, dieci anni esatti dopo la finale di Coppa dei Campioni persa a Roma contro il Liverpool: finale di coppa 30 maggio 84, il suicidio rumoroso di Di Bartolomei che cade il 30 maggio 94. Come se tutto fosse scritto, come tutto non fosse casuale, come se tutto fosse, anzi, perfettamente studiato, voluto. Del resto quel 30 maggio ‘84 la Roma si era un po’ spenta, stava scomparendo la magia che tanti personaggi si portavano dietro, da Falcao ad Ancelotti, da Cerezo allo stesso Di Bartolomei, che fu scartato prima da Eriksson a Roma, poi da Sacchi a Milano, scartato dalla voglia di modernità, di progresso. La Roma chiudeva un ciclo e questo significava un po’ morire: la Roma di Viola stava voltando pagina e Ago con lei. Da quel giorno pian piano, stava cambiando tutto per lui, che finiva la sua vita vicino Salerno, a Castellabate. Agostino è stato dimenticato dal mondo del calcio, in pochi lo hanno aiutato: «Tanti si sono dimenticati di me», disse in continuazione negli anni, quasi come un grido di dolore. Di Bartolomei era un ragazzo particolare, «sempre con quella pistola a portata di mano», raccontava chi lo conosceva bene e chi lo coccolava durante i mille ritiri in giallorosso. La pistola una compagna di vita, poi nemica e spietato vendicatore. 
A DiBa non piaceva la vita che stava conducendo, o meglio non era totalmente soddisfatto: questioni di nostalgia per Roma (viveva a due passi da Salerno, dove aveva concluso la carriera, e lì aveva attività più o meno funzionanti), supposti problemi finanziari, un mondo che lo aveva allontanato, la chiamata della Roma che non arrivava. Si sentiva intrappolato. Ago non ha resistito, molti ancora oggi gliene fanno una colpa, perché si è allontanato dalla gente che gli voleva bene e che oggi, a distanza di quasi trent’anni, ancora lo ricorda con affetto e lo ha eletto come il Capitano, con la maiuscola, della storia della Roma. Quel numero 10 che parlava con la bocca chiusa, avvolto dalla timidezza, ma che sapeva essere leader anche con chi aveva i riflettori puntati addosso per meriti calcistici, vedi una primadonna come Falcao, artefice primo del secondo scudetto. Ago era il classico condottiero che non aveva bisogno di parlare, il calciatore che appassionava i bambini per quelle “bordate” che tirava, per quel suo modo discreto di esultare, di essere. Un anti eroe ieri, una leggenda oggi e per sempre. 
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