'Ndrangheta viterbese, le vittime: «Dopo gli attentati abbiamo chiuso. Ci hanno cambiato la vita»

Giuseppe Trovato, il giorno dell'arresto
di Maria Letizia Riganelli
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Venerdì 29 Maggio 2020, 07:35 - Ultimo aggiornamento: 16:15

«Dopo gli attentati abbiamo chiuso. Ci hanno cambiato la vita». Gli imprenditori nel settore del compro oro, vittime della banda di Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi, raccontano al collegio del Tribunale di Viterbo le intimidazioni e i danneggiamenti subiti.

E’ il processo ai tre imputati che hanno scelto il rito ordinario, Manuel Pecci, Pavel Ionel ed Emanuele Erasmi (difesi rispettivamente da Fausto Barili, Michele Ranucci e Giuliano Migliorati), ma si parla solo dell’associazione a delinquere di stampo mafiosa, disarticolata dai carabinieri del Nucleo investigativo il 25 gennaio 2019. 

La tattica del pm Fabrizio Tucci è chiara: raccontare tutto, ogni singolo episodio di violenza per poi finire con i capi d’imputazione che riguardano i due imprenditori viterbesi e il tuttofare romeno, accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Quel metodo così spietato che ha portato a far chiedere tutte le attività di rivendita di preziosi finite nel mirino di Giuseppe Trovato. Il boss di origine calabrese ha iniziato la sua personale guerra contro i compro oro rivali per annientare la concorrenza.

A ripercorrere gli attentati dal banco dei testimoni Daniele Petrini ed Eleonora Macrì. I due imprenditori, compagni nella vita e nel lavoro, hanno subito una lunga serie di atti intimidatori. Da aprile a novembre 2017 hanno visto andare a fuoco 4 auto, hanno trovato una testa di agnello mozzata sul cofano e la vetrina di una dei negozi imbrattata con la vernice. I due, hanno spiegato al collegio, di essere stati prima arrabbiati e poi intimoriti dall’escalation di violenza. E avrebbero subito individuato il mandante. «Trovato passava davanti al negozio, sotto casa - avrebbero detto dal banco dei testimoni - ma non abbiamo mai capito il motivo».

A raccontare la sua esperienza anche Ulisse Piergentili, titolare di una gioielleria in via Cavour. L’imprenditore avrebbe detto che non capiva perché dopo ogni attentato Giuseppe Trovato passava in negozio per dire che non era stato lui. Velate minacce ed esplicite intimidazioni che avrebbero fatto sì che le vittime non andassero a sbandierare cosa era stato fatto loro. Rifugiandosi nell’omertà e nella paura.

«Va sottolineato - ha spiegato l’avvocato Ranucci, che difende Pavel Ionel - che nessuno ha parlato di minacce esplica da parte di Trovato. E soprattutto i compro oro, come hanno confermato, hanno chiuso per una crisi indipendente dagli attentati». Anche se la paura, come ha sottolineato l’avvocato di parte civile Rizzello, «ha inciso e non poco. Non a caso tutti gli imprenditori sentiti hanno concluso dicendo che dagli attentati non lavorano più». Si torna in aula il 24 giugno.

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