Presidente Cappochin, perché questa maratona digitale?
«La manifestazione è il nostro modo di creare una cultura dell’architettura diversa e si iscrive nella scia di un’altra serie di iniziative. Il nostro è un progetto più articolato partito dal congresso del 2018, “Abitare il paese: città e territorio del futuro prossimo”, che ci ha permesso già di sviluppare delle linee guida sull’architettura che potessero modificare il rapporto dell’Italia con il tema. Il nostro testo è già andato in Commissione Lavori Pubblici ed è stato approvato, manca solo il passaggio finale».
Le altre iniziative?
«Ad esempio, proprio per cambiare la cultura del Paese, l’anno scorso abbiamo deciso di coinvolgere le scuole elementari, medie e superiori con dei progetti che ora riguardano già 50 province italiane. Un coinvolgimento che sta continuando ancora oggi, online, anche durante il Coronavirus. Non vogliamo insegnare l’architettura ma capire come i nostri ragazzi e bambini concepiscono lo spazio pubblico per ragionare insieme sul da farsi».
Qual è il vostro obiettivo?
«Puntiamo alla rigenerazione delle città e alla creazione di una visione strategica legata ai nostri territori che ad oggi è assente nel Paese. Per questo, oggi più che mai, c’è bisogno di fondi strutturali che vengano dati a chi persegue gli obiettivi posti da leggi ben definite. È un modello che funziona, lo abbiamo visto già in diverse capitali europee come Lubiana che è diventata un gioiellino perché l’intervento pubblico di qualità ha invogliato i privati. Ogni euro speso dallo Stato ne porta 3 o 4 delle imprese».
Proprio per questo, insieme alle linee guida già pronte, ora presentate anche un Manifesto in 10 punti (“L’architettura è cultura e bene comune”).
«Esatto. È una sorta di vademecum che chiarisce il nostro contributo diretto in questa situazione e si basa su 3 pilastri».
Quali sono?
«Il primo prevede di incentrare tutto sullo sviluppo sostenibile e sul rapporto con l’ambiente, sulla scorta dell’agenda urbana dell’ONU del 2015. Mentre il secondo riguarda la rigenerazione urbana. Per noi deve essere incentrata sulla riqualificazione del periferie al fine di trasformarle da una massa informe ad un polo specifico con progetti sociali, culturali ed ambientali integrati in un sistema diffuso che porti i servizi a 15 minuti di distanza da qualsiasi punto della città».
E l'ultimo?
«È forse il punto più importante. Per fare tutto ciò e ripartire in una situazione come quella attuale è indispensabile una semplificazione normativa. Uno snellimento burocratico drastico che traduca trasparenza e qualità in fatti concreti il progetto di futuro».
Se ne sta parlando e spesso si propone il “modello Genova”. Lei cosa ne pensa?
«È un caso a sé stante, ha avuto una figura eccezionale che ha progettato il ponte (Renzo Piano ndr) e un sindaco molto bravo, ma non è generalizzabile. Non può essere che si bypassino le regole e si diano poteri ai commissari. Vorrebbe dire che lo Stato, che quelle stesse regole le ha scritte, non rispetta le norme. Il ché è un’evidenza di come queste non funzionino e quindi vanno riscritte, non bypassate».
Voi come cosa proponete?
«I concorsi in tal senso sono la soluzione migliore perché non mettono a confronto i fatturati ma le idee. Proprio sotto al ponte di Genova, nella val Polcevera in 4 mesi ce l’abbiamo fatta ed emersa la qualità di un progetto (Il parco del Ponte e il Cerchio Rosso ndr)».
Quindi, in sintesi, con le giuste regole si può davvero ripartire.
«Io credo assolutamente di si. Ma bisogna evitare quanto successo fino ad ora con una serie di decreti che hanno creato grande confusione perché privi di una strategia. Elargire soldi a macchia di leopardo escludendo le professioni intellettuali come la nostra dai finanziamenti a fondo perduto, vuol dire mettere in ginocchio il capitale intellettuale del Paese. Per questo con le altre professioni stiamo realizzando un manifesto che indichi come secondo noi debba svilupparsi la Penisola nei prossimi anni. Un tragedia tanto grande ora ci offre l’opportunità di cambiare il Paese, sarebbe grave sprecarla».
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