’idea di “ripartire” da Collemaggio (dove Celestino V fece ripartire la “ecclesia spiritualis” contro quella “carnalis”) simbolo felice del post sisma 2009; l’idea di ripartire dell’Eremita del Morrone il simbolo, in positivo, dell’emergenza Coronanavirus; l’idea di ripartire, per la cultura e la socialità, dal glorioso Tsa (che 51 anni fa si lanciò con un’esaltante produzione dell’“Avventura di un povero cristiano” di un visionario Ignazio Silone); l’idea di ripartire dai tre concetti celestiniani (perdono, silenzio, semplicità) della Perdonanza, cardini di una ricetta dalla travolgente modernità tanto da essere stati “benedetti” dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.
Ecco: l’idea. La centralità dell’Aquila nella cultura italiana (quello di ieri è stato il primo spettacolo nel Paese ai tempi del virus) e nella sua necessariamente nuova declinazione dopo la pandemia. Utopia? Celestino V, l’Eremita, il Ghandi del Duecento, inseguì utopie e, dopo 726 anni, non si può certo dire che abbia perso la sua battaglia, anzi.
Ci sono le basi, dunque, per ben sperare. La speranza del recupero di un ruolo per una città che ha saputo rialzare la testa di fronte a tutto. Anche al Covid-19. A patto che si lavori uniti per questo obiettivo. Che non ha colori, nè partiti. Che è anche della Curia aquilana (ieri assente non tanto con il suo cardinale ma con il suo pastore) nel momento in cui, invece, bisogna esserci tutti.
Aggrappati al saio di Celestino. Immota manet sì, ma publica hic salus.
Angelo De Nicola
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