Fase 2, Merler: «Non ci sono dati sull’effetto-riaperture, bisogna aspettare un’altra settimana»

Merler: «Non ci sono dati sull’effetto-riaperture, bisogna aspettare un’altra settimana»
di Mauro Evangelisti
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Sabato 16 Maggio 2020, 00:59 - Ultimo aggiornamento: 11:13

Ancora i numeri non raccontano gli effetti delle riaperture del 4 maggio. I dati del tabellone sui nuovi casi, diffusi ogni giorno, sono fotografia di contagi di 15-20 giorni fa. E anche il valore Rt (o R0) che calcola l’indice di trasmissione, regione per regione, per ragioni tecniche è legato statistiche di due settimane. Il professor Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Kessler che realizza studi per l’Istituto superiore di sanità sull’andamento dell’epidemia, parla con molta prudenza da tecnico, per evitare involontariamente di invadere il territorio della polemica.

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Professor Merler, qual è la differenza tra R0 e Rt? 
«R0 è il numero di casi secondari generati da un individuo a inizio epidemia, il numero medio ovviamente. Quindi quando l’epidemia è più o meno libera, senza misure di contenimento. RT è più o meno la stessa cosa, ma calcolata nel tempo: è il numero medio di casi secondari generata da ogni individuo infetto in un certo tempo. Rt si differenzia da R0 perché ci dà una indicazione a oggi, tenendo conto degli interventi. E ci consente di avere un quadro dell’efficacia degli interventi: se R0 era a 3 ed RT a oggi è a 0,5 abbiamo ridotto di sei volte il numero di infezioni. Oggi Rt ci dà indicazioni su quanto possiamo aumentare i contatti sociali, pur restando sotto a 1. Siccome siamo vicini a 0.5, possiamo quasi raddoppiare i contatti, in qualche modo».

Come si calcola?
«Il calcolo è elementare, ma non è facile spiegarlo. Un esempio banale: consideriamo una malattia che non esiste, mi ammalo oggi e trasmetto solo domani. Bene, la trasmissibilità sarà il rapporto tra i casi che vedrò domani e quelli che ho visto oggi. In altri termini: i casi di domani saranno determinati da quante persone trasmettono (e sono gli infetti di oggi) moltiplicato per la trasmissibilità. Dunque, facendo il percorso a ritroso, si fa la divisione tra i casi di domani e i casi di oggi. Ovviamente, il calcolo reale è più articolato, perché il Covid non si trasmette solo un giorno».

Come mai regioni che hanno una situazione molto tranquilla hanno un Rt alto? Non è fuorviante?
«Questo è solo uno dei 21 indicatori, racconta una parte della storia, ma non tutta. Quando siamo in una zona a poca incidenza, l’indicatore di Rt ha un margine maggiore di approssimazione. La statistica è così, normalmente: quando ci sono poco dati, l’incertezza è più alta, c’è grande variabilità statistica. Ipotizziamo una regione con 1 o 2 casi: se ti arriva un focolaio in una Rsa, il nostro calcolo si limita a vedere che i casi crescono, quante persone infettate ci sono in media. Se una sola persona ne infetta 3, l’Rt è 3. Eppure il dato assoluto resta basso. Per questo quell’indicatore va visto insieme a tutti gli altri, perché in una regione con moltissimi casi attuali, anche a fronte di una crescita sostenuta, comunque l’Rt risulta più basso di quella che passa da 1 a 3. Resta l’utilità dell’Rt: aiuta a vigilare e a intervenire prontamente».

In Germania, riaprendo, hanno visto l’Rt salire di poco sopra l’1. Ma non c’è stato il “panico da Rt”.
«Quello che è importante è vigilare, se va a 1,1 non è di per sé un dramma, bisogna però poi prendere quegli interventi correttivi per riportarlo sotto. L’importante è che non sia un trend costante per cinque mesi. E non è una classifica, è un indicatore che ci aiuta, ma può essere meno preoccupante la situazione di una regione con pochi casi e l’Rt appena sopra soglia, di un’altra che è sotto il valore di 1, ma ha moltissimi casi».

I dati della tabella della protezione civile a quando sono riferiti?
«Noi non lavoriamo su quei dati, ma su quelli del sistema integrato dell’Istituto superiore di sanità. Questo premesso, i dati delle tabelle della Protezione civile sono necessariamente riferiti al passato. Passa del tempo tra inizio dei sintomi, esecuzione dei tamponi, conferma. Si può arrivare fino a 20 giorni: vi sono persone che si sono infettate tre settimane fa, si sono ammalate diversi giorni dopo. Anche l’Rt che calcoliamo noi è riferito a due settimane fa. Per questo dico che è solo uno degli indicatori. L’Rt che vediamo oggi ancora non riflette l’effetto delle riaperture del 4 maggio. Il dato delle ospedalizzazioni è importante e forse più immediato, ma a livello statistico ha un limite: rappresenta una minoranza di chi è stato infettato. Se si potesse aspettare la statistica perfetta, sarebbe meglio riaprire tra una o due settimane, perché avremo un quadro preciso dell’effetto del 4 maggio. Ma ovviamente non si può fare. Quello che conta oggi è una vigilanza attenta del territorio, dobbiamo essere pronti a intervenire su ogni focolaio».

 

 
 
 

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