Romano Prodi
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Scossa all’economia/ Serve un piano dello Stato per rilanciare le imprese

Scossa all’economia/Serve un piano dello Stato per rilanciare le imprese
di Romano Prodi
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Domenica 3 Maggio 2020, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 16:22
Come è successo in tutte le grandi crisi, anche questa inattesa pandemia ha rimesso in gioco il ruolo dello Stato nell’economia.
Da molti decenni infatti ci si era solo dedicati ad emarginare in tutti i settori l’intervento pubblico, a partire dall’industria per finire con la finanza.

Per lungo tempo non si è nemmeno potuto parlare di politica industriale, pur comprendendo con questo termine non solo le aborrite nazionalizzazioni delle imprese, ma anche la necessità di regolare e mettere in sinergia fra di loro i vari attori dell’economia. In poche settimane siamo entrati in un altro mondo: tutti si appellano allo Stato e i governi mobilitano ogni risorsa disponibile a servizio delle imprese, indipendentemente dall’ideologia dei governanti stessi.

Trump è corso in soccorso dell’intero sistema produttivo e, giustamente, cerca di arginare con una cascata di denaro pubblico la caduta di potere d’acquisto dei cittadini e il crollo del fatturato delle imprese. Il più grande nemico dell’ideologia keynesiana è oggi il maggiore utilizzatore delle politiche keynesiane

Lo stesso sta avvenendo in tutti i paesi europei, che ora propongono misure di intervento che sembravano fino a poco tempo fa addirittura inconcepibili. La Commissione europea, dopo anni di severa restrizione, ha sorprendentemente approvato, anche se in via temporanea, la possibilità dei diversi Paesi di destinare 1.900 miliardi di aiuti di Stato a sostegno delle proprie imprese. Tuttavia, oltre la metà di questi interventi pubblici riguarda la Germania, dove il governo dispone di risorse infinitamente superiori a quelle degli altri paesi. Da ciò nasce la ben giustificata preoccupazione che questa ineguale disponibilità di risorse pubbliche accresca ancor più la già notevole superiorità produttiva tedesca, mettendo a rischio gli stessi equilibri che debbono regolare il buon funzionamento del mercato unico.

D’altra parte questo aumento del ruolo pubblico nelle grandi crisi non è una novità: tutte le cadute dei sistemi economici hanno percorso la strada della ripresa solo in conseguenza dell’aumento della domanda pubblica e dei finanziamenti pubblici. Così accadde dopo la crisi del 1929 sia negli Stati Uniti sia in Germania, anche se con obiettivi del tutto differenti. E lo stesso avvenne in Italia con la creazione dell’Iri, frutto non di un’ideologia ma della necessità.

Quando divenni presidente dell’Iri (nel 1982) per prima cosa andai a chiedere al professor Pasquale Saraceno, la memoria storica che da giovane neolaureato, a fianco di Alberto Beneduce, aveva presenziato all’incontro con Mussolini sulla fondazione dell’Iri, quale era stata la motivazione ideologica che stava alla base di quella decisione. La richiesta del Duce si era espressa con una semplice frase: «Fate qualcosa per queste imprese». Anche oggi, sperando di essere più tempestivi, bisogna fare “qualcosa”. Non certo un’altra Iri perché il contesto economico è totalmente cambiato, ma occorre certamente una politica pubblica che aiuti la ripresa delle nostre imprese.

METTERE IN MOTO I VAGONI
In primo luogo è necessario mettere subito in moto i vagoni che sono già in stazione pronti a partire e per i quali occorre solo togliere i freni. Parlo dell’edilizia e delle opere pubbliche. Siamo pieni di progetti già perfezionati e già finanziati che sono fermi perché l’intreccio delle norme e dei permessi ne impedisce la messa in moto. Si spazia da strade a ferrovie, da scuole a ospedali, da opere di difesa del suolo ai porti e agli aeroporti: un cumulo di arretrati.

Da anni si parla di sveltire i processi decisionali e ogni nuova legge viene preceduta da pagine e pagine di richiamo alle legislazioni procedenti che di fatto impediscono il cammino delle nuove leggi. Quando ci si deciderà a tagliare di netto almeno le più pesanti eredità di questo passato? Eppure vale la pena di ripetere che i lavori pubblici, con le diversità che la storia comporta, sono sempre stati il primo strumento della rimessa in moto di un’economia dopo una crisi o dopo la fine di un evento bellico.

Il secondo strumento per la ripresa consiste nell’agire direttamente sul sistema produttivo. Il che vuole dire immettervi subito le necessarie risorse o con prestiti o a fondo perduto. I prestiti agevolati (con totale o parziale garanzia pubblica) sono sempre stati utilizzati come un normale strumento di politica economica, con una particolare intensità quando si volevano perseguire obiettivi specifici, come lo sviluppo del Mezzogiorno (Cassa del Mezzogiorno) o il sostegno all’imprenditoria minore (Legge 623 del 1959). Ovviamente lo strumento del credito rimane valido e ampiamente utilizzato ovunque. La pandemia ha tuttavia riportato prepotentemente nell’arsenale di tutti i governi uno strumento che l’Europa ha sempre avversato e che ha ammesso solo in casi del tutto eccezionali: la diretta iniezione di capitale di rischio, arrivando fino alla partecipazione dello Stato nel capitale delle imprese.

Dopo essere stato a lungo esecrata, essa è ora all’ordine del giorno perfino in Germania, toccando imprese fino a pochi mesi fa fiorenti come Lufthansa. La compagnia aerea ha bisogno di un’iniezione di quasi 10 miliardi, il che non è sorprendente dato il crollo della domanda del trasporto aereo. È invece del tutto sorprendente e inatteso che il governo tedesco voglia trasformare almeno parte di questa iniezione di denaro in una diretta partecipazione del governo al capitale dell’impresa, ipotesi che sta suscitando l’opposizione del management aziendale. Questo è solo un caso dei tanti nuovi rapporti tra Stato e imprese ora in discussione in Europa.

L’Italia, ancor più degli altri Paesi, non può sfuggire a questo duplice compito di fornire credito alle imprese e di partecipare al capitale di rischio delle aziende più significative che si trovano in carenza di risorse proprie. Lasciando da parte il problema del credito e del ruolo del sistema bancario, deve essere chiaro che, nel contesto attuale, la presenza pubblica nel capitale delle aziende non deve, salvo casi del tutto straordinari, tradursi nella gestione diretta dell’impresa, ma limitarsi ad una partecipazione di minoranza, imitando in questo modo quello che è stato un costante comportamento della Francia dove, nelle situazioni ritenute politicamente rilevanti, lo Stato difende l’interesse nazionale e, insieme, fornisce alle imprese una non trascurabile parte delle risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi programmati.

Il problema politico da affrontare, oltre a quello di rendere fluido e chiaro il percorso decisionale delle banche nella fornitura dei crediti agevolati alle imprese, è di contare su una struttura pubblica delegata non a gestire le aziende, come era il caso dell’Iri, ma a sorvegliarne la gestione e a prendere parte alle decisioni strategiche fondamentali, come le variazioni degli assetti proprietari. È quindi urgente compito del governo mettere in opera con estrema rapidità una tale struttura o incaricando organismi esistenti, come la Cassa depositi e prestiti, o costituendo una nuova task-force a livello ministeriale. In entrambi i casi occorre naturalmente procedere al rafforzamento di squadre di specialisti sul modello di quanto è avvenuto di recente in Francia.

Un corollario non trascurabile di questi nuovi compiti pubblici è stabilire criteri trasparenti e rispettosi delle professionalità nelle nomine aziendali, criteri che non hanno certo costituito la linea guida delle ultime decisioni in materia. Questo per ciò che riguarda le imprese maggiori.

Tuttavia, è ben noto che nel nostro paese le grandi imprese sono un piccolo numero e che non ha senso pensare che il settore pubblico si espanda fino a diventare azionista, seppure di minoranza, delle piccole e medie imprese che costituiscono la quasi totalità delle aziende italiane e ne occupano la parte dominante degli addetti. Su queste imprese si gioca quindi il nostro futuro.

Ed è assolutamente necessario, ma altrettanto difficile, costruire in questo campo una politica economica che non può che essere diversa da quella francese o tedesca perché la nostra realtà è diversa. Possediamo infatti, in ogni settore produttivo e non solo nell’industria, un robusto nucleo di alcune migliaia di medie imprese che, per efficienza e produttività, non sono inferiori ai migliori concorrenti europei. Accanto a queste imprese medie vi sono i milioni di piccole o piccolissime aziende in genere meno efficienti che, insieme alla Pubblica amministrazione, contribuiscono a tenere basso il tasso della produttività globale del nostro sistema.

Molte di queste aziende minori vivono, ovviamente, fornendo beni o servizi alle aziende maggiori. Come hanno dimostrato alcune esperienze concrete, la creazione di un legame di lungo periodo tra le efficienti imprese medie e i loro fornitori di beni o servizi, produce un enorme vantaggio all’intero sistema economico. Sia le imprese maggiori che i loro fornitori accumulano, con tali legami, vantaggi competitivi che da sole non riuscirebbero mai a raggiungere. L’aiuto più efficace sarebbe oggi quello di incentivare, col denaro pubblico, raggruppamenti fra diverse imprese, soprattutto tra le più efficienti imprese fornitrici e le imprese acquirenti di beni e servizi, anche tramite una partecipazione azionaria accompagnata dalla presentazione di comuni progetti strategici, sempre che questi non implichino un rapporto esclusivo fra le imprese. Tutto ciò ha la concreta possibilità di mettere in atto i cambiamenti necessari per compiere un duraturo salto di produttività.

Un innesto di risorse pubbliche nelle imprese che si impegnano a compiere queste trasformazioni mi sembra essere l’investimento più efficace per dare vita al necessario aumento della produttività non solo nell’industria, ma anche nel variegato ed ancora più frammentato settore dei servizi. Il “piccolo è bello” che, attraverso una straordinaria moltiplicazione delle nostre imprese, ha caratterizzato la prima fase del nostro sviluppo economico, è ora una palla al piede che grava sul futuro del nostro sistema produttivo e lo sarà ancora di più nel quadro della futura concorrenza, quando si concretizzerà l’enorme flusso di risorse che in questi giorni sono state deliberate dalla Germania e, anche se in misura non così massiccia, dalla Francia e dagli altri competitori che stanno al nord delle Alpi.

Non voglio a questo punto ripetere quanto ho già scritto su queste colonne che nessuna politica industriale può essere efficace senza la preparazione di nuove risorse umane, sia nelle scuole tecniche, sia nei corsi di tecnologia applicata a livello universitario, sia nella ricerca specializzata a servizio dei settori trainanti dell’economia italiana. Tale problema non è stato mai affrontato con la dimensione e l’urgenza necessaria, ma diventa improcrastinabile nel momento in cui la stessa crisi apre gli orizzonti di una rivoluzione tecnologica senza precedenti.

IL COSTO DEL LAVORO INFERIORE
Su quest’aspetto bisogna che tutto il Paese senta questa sfida come primaria ad ogni suo livello. Nella strana sospensione di questo tempo di coronavirus ho ad esempio visto con piacere che gli studenti dei corsi di master, gli ex-studenti (ora manager) e i docenti della Bologna Business School stanno organizzando squadre di soccorso per le pmi in difficoltà con consulenze gratuite non solo per la riorganizzazione delle imprese stesse, ma anche in vista di un riesame del funzionamento delle filiere produttive. Si tratta di un esempio di portata solo regionale ma che va nella giusta direzione di legare le imprese minori in un processo culturale più ampio rispetto a quello in cui ordinariamente operano. Nelle nuove strategie di tutti i paesi europei vengono inoltre analizzati i possibili mutamenti che la pandemia causerà nei confronti della concorrenza a livello globale.

A parte i rilevanti cambiamenti nel quadro concorrenziale che andranno esaminati caso per caso, si parla sempre di più del così detto “reshoring” in riferimento alla possibilità che, per motivi di sicurezza, una certa parte delle produzioni generate al di fuori dell’Europa, possa trasferirsi nel nostro continente. Pur tenendo conto delle incertezze nel definire quale dimensione potrà avere questo processo, è evidente la necessità di fare in modo che esso coinvolga l’Italia con la massima possibile intensità. I presupposti economici non mancano dato che il nostro costo orario del lavoro, comprendendo anche i costi indiretti, è purtroppo assai inferiore a quello dei nostri concorrenti più immediati, a partire da Germania e Francia.

Vi sarebbero quindi tutte le condizioni per essere i principali beneficiari di questo probabile rimpatrio delle imprese, se esso non fosse impedito dai medesimi ostacoli burocratici ai quali abbiamo fatto riferimento trattando degli investimenti nel settore dei lavori pubblici. D’altra parte, già da molti anni abbiamo visto un crescente numero di imprese italiane acquistate da compratori stranieri, che tuttavia solo in casi eccezionali hanno portato da noi investimenti nuovi (così detti greenfield). Tutto questo costituisce un’ulteriore prova che i freni allo sviluppo delle nostre imprese non sono nei costi di produzione, ma negli ostacoli ad intraprendere, propri del nostro paese.

In queste osservazioni mi sono limitato a toccare solo gli aspetti che riguardano i necessari e urgenti cambiamenti da mettere in atto nel quadro già esistente, senza toccare capitoli che saranno di importanza determinante come la politica ambientale e la diffusione nell’uso dei big data e dei nuovi strumenti di informazione in tutto il sistema produttivo. Nemmeno ho tentato di riflettere sugli enormi cambiamenti che la pandemia produrrà nel ruolo dello Stato nella sanità. Per ora è urgente riflettere su come debbono cambiare le cose che già dobbiamo maneggiare ogni giorno. 
 
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